Politica

Non è il fascismo di governo che mi terrorizza, ma quello dentro di noi

“Ed hai notato che l’uomo nero
Semina anche nel mio cervello”

In questi primi giorni di governo in molti stanno sentenziando sui primi vagiti dell’esecutivo Conte. Lascio volentieri a loro l’esercizio della certezza, da cui mi astengo sollevato. Certo, la mole di interrogativi è abbastanza ampia da non essere benaugurante. Tralascio i grandi temi come Europa, giustizia, tasse, lavoro e scuola, perché ho la sensazione che si stiano sprecando fiumi di parole sul nulla, se momentaneo o eterno si vedrà.

Gli interrogativi che mi agitano sono molto più triviali. Forse persino sciocchi. Mi chiedo, con tenerezza, se il presidente del Consiglio Giuseppe Conte abbia ritrovato i suoi preziosi appunti, e che cosa ci fosse scritto di così importante da agitare così palesemente l’alfiere del cambiamento che, da professore, dovrebbe avere anticorpi potenti contro lo stress da esame orale. Mi chiedo se le sue dotte citazioni – Dostoevskij, Beck – fuse a freddo e per giunta accazzo, fossero concordate con i suoi padroni o se non li abbia invero indignati facendo sfoggio di cultura letteraria. Mi chiedo poi se il Matteo Salvini con la cravatta conosca quello senza cravatta e perché il primo abbia messo i calzini da boscaiolo dandy di fronte a Mattarella. Mi chiedo se il ministro Luigi Di Maio abbia una idea in testa che non sia “siamo al lavoro per creare lavoro”. Quantomeno uno slogan nuovo, da esibire a giorni alterni per non sgualcire la parola Lavoro in modo così fastidioso, dopo avere sgualcito le istituzioni con l’arroganza de “Da oggi lo Stato siamo noi”. Mi chiedo come siamo arrivati ai congiunti senza nome e ai congiuntivi senza futuro.

Se siete arrivati fino a qui e non avete ancora avuto la tentazione di chiamarmi Piddino o forzaitaliota, vi dirò che – sarò sincero – il programma non mi turba. Forse perché attribuisco al nuovo esecutivo una capacità di tradurlo in fatti pari a zero: i geni della lampada possono esaudire fino a tre desideri, non 40 pagine di sogni.

Quel che mi spaventa, e lo avrete capito dal tenore dei miei interrogativi, non è l’approssimazione nei fatti, ma l’approssimazione delle idee, del contegno, della forma di questo governo. Non incapperò nella tentazione di dare del fascista a Salvini perché non è questo che temo. Né gongolerò nel tantopeggiotantomeglio di uno Sgarbi sinceramente divertito e compiaciuto da dominio “del disordine e dell’ignoranza”.

Quel che temo è che queste persone abbiano rovinato il mio Paese, prima. Che siano essi stessi figli di un Paese rovinato, degradato, rotolato a valle come una frana di fango che parte da Craxi e arriva fino a Berlusconi, Renzi. Chi li ha votati e ora li sostiene gioisce perché condivide la retorica semplificatoria, l’accattonaggio elettorale, la demagogia a ideologia variabile, lo strepitare, il minacciare costante, il nuovismo fine a se stesso. Condivide le dirette Facebook senza contraddittorio spacciate per trasparenza e i proclami di sovrani smaccatamente razzisti che fingono di essere Salomone.

Sono terrorizzato non dal fascismo che è nel governo, ma dal fascismo dentro di noi che queste macchiette svegliano e agitano costantemente. Consumatori di politica come di prodotti, totalmente privi di una idea stabile del mondo, figurarsi del futuro, di una aspirazione comunitaria invece che solitaria. Analfabeti della lingua e delle culture del mondo, viaggiatori di esistenze low-cost che vanno da punto a punto senza mai attraversare gli spazi intermedi che separano le realtà.

Non sappiamo un bel niente. Ma siamo convinti di sapere tutto. E delle due cose la seconda è la peggiore: difendiamo strenuamente il vuoto dall’invasione di concetti più lunghi di 140 caratteri, siamo avvitati in un linguaggio misero per pensieri altrettanto miseri. Cosicché se anche avessimo pagine e pagine bianche per poterci esprimere non avremmo niente da dire.

E questa forse è la conseguenza più drammatica: non crescono più i Berlinguer, non crescono i Carniti (grazie a chi me lo ha fatto conoscere), non crescono le Segre (un qualunque dio la preservi a lungo in quel Senato), perché la terra che li aveva coltivati è abbandonata da tempo, la lingua che li animava sta morendo.

E le idee che ne erano la linfa sono quotidianamente sbeffeggiate e derise da chi avrebbe dovuto esserne il guardiano.