Economia & Lobby

Qualche dubbio sulla Cassa Depositi e Prestiti che entra in Telecom

Tutte le volte che sento parlare di intervento dello Stato nel capitale delle imprese mi viene una fitta al portafogli. Con riferimento al recente ingresso di Cassa Depositi e Prestiti in Tim potrebbero essere sufficienti le modalità con le quali l’operazione è stata dapprima annunciata e poi successivamente posta in essere con l’immaginabile impatto sui corsi di mercato delle azioni: non è da escludere che la riduzione dal 5% si è poi ridotta al 4,2% sia in parte dovuta all’effetto dell’annuncio anticipato.

Sarebbe tuttavia un errore cercare di leggere questa mossa nell’ambito delle dicotomie tradizionali tra Stato interventista vs libero mercato oppure difesa dell’italianità vs globalizzazione: si tratta di una partecipazione di minoranza, quindi l’interventismo è fuori luogo, mentre la finalità dichiarata sarebbe quella di perseguire lo scorporo della rete fisica che dovrebbe essere trasferita ad una public company ed eventualmente aggregata alla rete in fibra ottica che oggi fa capo ad Open Fiber società di Enel e della stessa CDP. Considerando che la strategia di scorporo e valorizzazione della rete viene portata avanti dal Fondo Eliott, investitore istituzionale non italiano, anche il nazionalismo è fuori discussione.

Ma allora volendo leggere con il dovuto approfondimento una questione con questo livello di complessità da dove dovremmo partire? Trattandosi di una rete e, di conseguenza di una infrastruttura chiave, forse si dovrebbe porre un tema di regolamentazione. Questo aspetto appare poco toccato dai fautori dell’intervento della CDP, come il ministro Carlo Calenda che nel rintuzzare giornalisti e commentatori si è concentrato sul concetto di public company, neanche fosse una formula magica risolutiva * di quelle molto efficaci nella comunicazione politica, ma di scarso utilità per chiarire il senso di questa manovra.

Dunque partendo dalla regolamentazione possiamo sollevare il primo interrogativo: perché lo Stato italiano non persegue le proprie finalità intervenendo sulla regolamentazione invece di sputtanare il risparmio postale in partecipazioni di minoranza peraltro acquisite con modalità dilettantistiche? Se il governo vuole intervenire su infrastrutture chiave come quelle inerenti le telecomunicazioni, perché non può agire come entità politica, utilizzando la moral suasion, modificando la regolamentazione o addirittura arrivando a minacciare l’esproprio della stessa rete (da capire lì il tema dell’indennizzo) come extrema ratio? L’azione politica sembrerebbe poi decisamente preferibile anche considerando che il governo non dispone di risorse sufficienti per intervenire in modo incisivo sul mercato e si riduce ad operare come un giocatore d’azzardo che mette un chip sul cavallo Elliott.

Ancora, tornando alla public company, questa definizione vuol dire solo società con azionariato diffuso, e nulla ci dice in tema di garanzie dell’interesse dei cittadini, se non si fa riferimento ad un opportuno quadro regolamentare. Ma di regolamentazione non si parla, mentre public company funziona benissimo per bastonare su Twitter “i liberali alle vongole”.

Non attendendomi di ottenere risposte alle mie domande (quelle dell’ultimo post non ne hanno ricevute) mi permetto di fare qualche congettura sulla base delle informazioni disponibili: un governo troppo debole per imporre la propria volontà politica per i canali tradizionali, troppo povero per ricomprarsi le infrastrutture, incautamente privatizzate in passato, sta forse cercando di “battere un colpo” per partecipare alla strategia di qualcun altro (cos’avrebbe fatto il governo se non ci fosse stato l’intervento del fondo Elliott?)? La public company sarà forse un modo furbo per comprare coi soldi del parco buoi la rete da mettere insieme con quella della fibra, salvo riservarsi diritti di nomina del management in virtù della partecipazione di minoranza?

Lasciando ad altri le valutazioni di carattere politico provo a tirare le fila della questione sotto il profilo economico e dal punto di vista del consumatore/contribuente:

– Oggi cambiare compagnia telefonica (in particolare sul mobile) è già più facile che non sostituire il fornitore di energia e gas e la questione di come gestire più operatori su una stessa rete è stata portata avanti in modo accettabile nel comparto ferroviario. Era veramente necessaria e urgente la scommessa sull’equity usando il risparmio postale?

– Il rilevante indebitamento della società di comunicazioni e il potenziale teorico derivante dalla rivalutazione della rete in sede di scorporo sono tematiche molto complesse che è opportuno vengano affrontate da chi ha le competenze per comprendere i rischi e soprattutto la disponibilità a fronteggiare le eventuali perdite è questo il caso della CDP che, anche per comprare le azioni, lo annuncia in anticipo modificandone il corso al rialzo?

– Dovendo in qualche modo sopportare la scelta fatta in passato, probabilmente non ottimale, della privatizzazione con l’ottica di fare cassa piuttosto che di gestire opportunamente un segmento chiave dell’economia, non sarebbe preferibile per lo Stato riservarsi il ruolo di regolatore e di arbitro senza scendere in campo (peraltro in quota di minoranza) in favore di una sola parte?

* A proposito di formule efficaci, come avevo rilevato nel mio ultimo post, il ministro aveva già dato ottima prova con la concorrenza sleale degli altri paesi, quella cosa che vale se un’azienda vuole lasciare l’Italia oggi, ma invece non opera quando è il nostro paese a sussidiare la stessa azienda per 12 anni, con un po’ di ironia che al ministro non manca, si potrebbe dire che “sleale è quando Calenda fischia”.

@massimofamularo