Francesca Borri, Barbara Schiavulli e Gabriele Micalizzi da anni lavorano dalle zone più calde: Iraq, Medio Oriente, Africa, Yemen. Hanno scelto di rischiare sulla loro pelle, senza garanzie e senza paracadute. Lontani nel tempo dal giornalismo glorioso raccontato in 'The Post'
Spesso, poi, le riviste non vogliono raccontare la guerra. “Chiedono ‘storielle’ collaterali al conflitto, perché non vogliono vedere le foto dei morti o degli obitori. E magari neanche l’inserzionista pubblicitario le vuole, quindi niente. La situazione è paradossale, perché se pensiamo al giornalismo italiano e non solo, circa il 50-60% è coperto da freelance. In pratica loro hanno surclassato il monopolio numerico dei giornalisti a contratto. I media hanno molto meno budget da investire rispetto al passato. Quindi il giornalismo è diventato fast food, dai contenuti omologati e online alla ricerca della velocità e del clic”. E a rimetterci sono “qualità e fact checking“.
Quello che oggi paga di più sono immagini e video, “ma ti chiedono sempre testi da accompagnare alle foto. E spesso vogliono direttamente l’esperienza del fotografo. In questo caso, rispetto al passato, è difficile mentire. Siamo tutti lì, uno di fianco all’altro, c’è twitter e verificare quello che altri pubblicano è più semplice”. Ma se un testo in sé viene pagato meno, è pur vero che “un giornalista ha un contratto più light, con un determinato numero di giorni di lavoro l’anno. Per il fotografo non è così: viene sempre visto come una figura esterna, l’offerta è tanta e noi giornalisti sempre di più. Per ogni guerra c’è qualcuno che prova a fare questo lavoro. Se ci fosse una produzione adeguata sarebbe una buona cosa, ma in realtà le cose che escono sono sempre le stesse e sono poche”. Perché provano? “Perché è più semplice buttarsi: i voli costano di meno, non c’è l’assicurazione e sopravvivi come puoi. Poi alcuni mollano e non li vedi più, altri li reincontri dopo anni”.
Incluso quelli italiani che, almeno in Libia, sono sempre meno. “Quello è il paese che frequento di più. Quando parto lavoro spesso per giornali e tv, anche se vedo una certa tendenza degli italiani a farsi pagare il viaggio dalle ong, che ti fanno da taxi anche per i contatti locali. Un metodo che a me non piace. L’ho fatto solo una volta per Emergency perché loro sono tosti”. Gabriele riesce a vivere da freelance perché, dice, “non vado solo nelle zone di guerra. Diversifico. Ho fatto servizi di moda e documentari, girato serie tv. Ne ho bisogno, anche per respirare dopo foto di obitori e gente col kalashnikov”. Vendere le foto, però, è sempre più dura. “I grandi che le comprano oggi sono pochi: parliamo di Time, Nyt, Stern, Spiegel e Le Monde. I giornalisti oggi tendono a fare tutto: foto, video e testi. Ma non si può fare tutto bene e chi ci rimette è sempre la qualità. Dove andrò prossimamente? Yemen, anche se la situazione è complicata. E punto a tornare in Libia“.
Foto 1 – 21/06/2016. Libia, Sirte. Costa occidentale della città di Sirte. I ribelli avanzano verso una collina vicino alla strada sulla costa della città. Un soldato spara un RPG, mentre i suoi compagni lo coprono.
Foto 2 – 16.7.2017. An Issa, Siria. Mogli di guerriglieri dell’ISIS scappate da Raqqa dopo che l’esercito curdo ha circondato la città. I loro mariti sono stati arrestati per accertamenti riguardo alla loro appartenenza al gruppo jihadista dello Stato Islamico. La realtà che raccontano è di oppressione e violenza da parte delle bandiere nere nei confronti dei civili. Raccontano di esecuzioni pubbliche, torture e detenzioni immotivate. May, la donna al centro della fotografia, parla perfettamente inglese – è un’insegnante – e racconta di come molte donne occidentali siano arrivate a Raqqa per far parte della terra islamica che segue le regole della jihad. Ben presto, però, si sono rese conto di quanto fossero diversi i racconti trovati online e la realtà dei tagliagole dell’Isis.
Foto 3 – 7.7.2017. Mosul, Iraq. Esercito iracheno avanza nella battaglia finale contro lo Stato Islamico.