Mondo

Dopo un anno di Donald Trump l’America è un posto peggiore

Un anno dopo le presidenziali americane, il mondo non è un posto più sicuro e l’America è un posto peggiore: carneficine, anche in chiesa; attentati; rigurgiti di razzismo e intolleranza. Il magnate presidente accusa un calo della popolarità (mai nessuno così male a un anno dall’elezione), in attesa – forse – di fare i conti con la giustizia per il Russiagate, l’intreccio di contatti tra la sua campagna ed emissari russi: l’inchiesta ha già condotto all’arresto di suoi collaboratori, ne ha costretti alle dimissioni altri e sfiora la sua famiglia, dal figlio Donald jr al genero Jared Kushner.
Un anno fa, nell’Election Day dell’8 novembre 2016, Donald Trump otteneva oltre tre milioni 300mila voti meno della sua rivale Hillary Clinton e veniva eletto 45° presidente degli Stati Uniti. Perché negli Usa non contano gli elettori, ma i Grandi elettori: Trump ne ebbe 306, contro i 232 della Clinton.

Un anniversario in Asia
Oggi Trump festeggia l’anniversario tra la Corea del Sud, dove il maltempo gli ha impedito la visita al confine con la Corea del Nord, e la Cina, dove va da turista alla Città Proibita: speriamo cnon gli venga in mente di farlo con un botto, perché la compagnia del presidente cinese Xi Jinping gli ispira le peggiori fantasie. In aprile, mentre l’aveva a cena nel suo resort di Mar-a-Lago, in Florida, sparò una gragnola di missili sulla Siria e lo informò al dessert.

Nel viaggio in Asia, il magnate presidente ha però finora mantenuto un linguaggio moderato e possibilista verso Pyongyang. Nei Paesi alleati, Giappone e Corea del Sud, ha trovato modo di vender armamenti – è quel che gli riesce meglio, fare il mercante di morte dal Medio all’Estremo Oriente. A Tokyo ha annunciato che il Giappone comprerà “grandi quantità di equipaggiamento militare” dagli Stati Uniti per “abbattere – parole sue – i missili nordcoreani”. A Seul ha detto che “nessun dittatore, nessun regime, nessun Paese deve mai sottovalutare la determinazione dell’America”.

L’eco delle tragedie americane
Anche in Asia Trump è stato raggiunto dall’eco delle tragedie americane. Cinque settimane dopo il massacro di Las Vegas, neppure una settimana dopo l’attacco di Halloween a New York, c’è stata, domenica scorsa, una carneficina in una chiesa battista di Sutherland Spring, non lontano da San Antonio, nel Texas: un’area ad altissima densità di militari ed ex militari e dove c’è un’arma in ogni casa.

Come già fece dopo la strage di Las Vegas, le raffiche sul pubblico di un concerto country, il presidente attribuisce l’eccidio di Sutherland Spring – il più grave di tutti i tempi nel Texas e in una chiesa – alla follia d’un pazzo, un giovanotto “affetto da problemi mentali al massimo grado”. Le armi facili – dice Trump – non c’entrano. E, anzi, c’è chi in Texas ha un antidoto sicuro contro ulteriori stragi: non limitare la vendita delle armi, ma fare in modo che più brava gente vada in giro armata, così che i buoni possano intercettare e neutralizzare i malintenzionati.

Sirene d’allarme dalle elezioni verso il Midterm
Dagli Usa, il presidente è stato pure raggiunto nelle ultime ore dai risultati delle elezioni di ieri, locali e statali: sirene d’allarme, per lui e per il suo partito. A New York il sindaco Bill de Blasio ottiene a larghissima maggioranza un secondo mandato ed entra nel novero dei potenziali candidati a Usa 2020; e i democratici vincono pure in Virginia e nel New Jersey, dove il governatore uscente è un fedelissimo di Trump, Chris Christie, a fine mandato tra scandali e polemiche.

L’attenzione della politica è proiettata sulla scadenza di Midterm, il 6 novembre 2018: fra un anno, si rinnoveranno tutti i 435 seggi della Camera, un terzo del Senato – 33 seggi su 100- e ben 39 governatori. I repubblicani, che ora hanno la maggioranza sia alla Camera che al Senato, stanno accusando una raffica di defezioni e temono di perdere. La Casa Bianca, che non ha finora mostrato doti di mediazione politica, ne uscirebbe indebolita.

Il bilancio di un anno di promesse mancate
Non che sia servito a molto, finora, tutto il potere conferito ai repubblicani dagli elettori nel 2016: Trump non ha ancora realizzato nessuna delle sue principali promesse elettorali, non ha rimpiazzato la riforma sanitaria del suo predecessore Barack Obama con un altro sistema – l’ha solo svuotata -, non ha fatto la riforma fiscale – se ne sta discutendo -, non ha alzato il muro al confine del Messico né attuato la riforma dell’immigrazione, ma ha proceduto con provvedimenti spiccioli spesso contestati e bloccati dal potere giudiziario – dal ‘Muslim ban’ alle misure contro i ‘dreamers’ -. L’ultimo della serie è l’ordine di rispedire a casa 2500 immigrati nicaraguensi accolti negli Anni 90.
In estate, la Casa Bianca appariva un Grand Hotel: gente che va e gente che viene, gli uni cacciati, gli altri chiamati ‘a salvare il soldato Trump’. L’arrivo a capo dello staff del generale John F. Kelly ha apparentemente messo ordine nel caos. Ma il presidente alimenta, con tweet e sortite fuori misura, le tensioni razziali e dà in qualche modo legittimità a suprematisti bianchi ed estrema destra. Lo tiene su l’economia, che va bene del suo.

Se non ha fatto l’America ‘great again’, Trump è però riuscito a smantellare l’America di Obama, diritti civili, riforme sociali, ‘sanatorie’ in politica estera. Il magnate presidente s’è rimangiato l’apertura a Cuba e ha messo in bilico l’intesa sul nucleare con l’Iran; ha reso se possibile più fragili gli equilibri in Medio Oriente, allineando gli Usa con Arabia saudita e Israele; e ha inasprito, insieme al dittatore nordcoreano Kim Jong-un, le tensioni in Estremo Oriente; infine, ha deluso e irritato il suo Grande elettore più controverso, Vladimir Putin. E, denunciando gli accordi di Parigi contro il riscaldamento globale, l’America del magnate è divenuta una minaccia globale, lasciando alla Cina e all’Europa la leadership della speranza ambientale.