Diritti

L’Italia risponde alle Nazioni unite. Ma sulla tortura che non è ancora reato ( e non solo) mente

La scorsa settimana sono stata a Ginevra, dove era il turno dell’Italia a venire esaminata dal Comitato diritti umani delle Nazioni Unite, l’organismo deputato a valutare il rispetto da parte degli Stati del Patto sui diritti civili e politici del 1966. Ogni circa quattro anni (ma l’Italia era in ritardo….), ciascuno Stato viene invitato a presentare un rapporto nel quale spiega come ha affrontato i problemi individuati dal Comitato nei quattro anni precedenti. Il rapporto viene discusso in una seduta pubblica con il governo del Paese interessato.

Le organizzazioni della società civile possono proporre le loro osservazioni sulle questioni trattate dal rapporto governativo. A Ginevra ho portato il punto di vista di Antigone per le tematiche legate alla giustizia penale. Ho raccontato che dopo la condanna del 2013 da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo all’Italia per i trattamenti degradanti dovuti al sovraffollamento delle carceri, il governo aveva preso provvedimenti per diminuire il numero dei detenuti. Tuttavia, appena il Consiglio d’Europa ha distolto lo sguardo,il numero ha ripreso ad aumentare e in carcere si è cominciato nuovamente a stare peggio. Ho raccontato che il disegno di legge per rendere la tortura un reato è di nuovo fermo in Parlamento e molto probabilmente anche questa legislatura finirà con un nulla di fatto. Ho anche raccontato, uscendo dai ‘nostri’ temi, che nell’estate del 2016, 48 persone provenienti dal Darfur richiedenti asilo politico nel nostro Paese sono state rimandate in Sudan senza troppi complimenti, poiché l’Italia sostiene che il presidente sudanese al-Bashir sia un buon interlocutore con il quale stipulare patti per il rimpatrio, nonostante su di lui penda un mandato di arresto della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità.

Ho poi assistito alla seduta pubblica e alle risposte che il governo italiano ha fornito all’Human Rights Committee. Alcune di esse sono state ragionevoli e veritiere: ad esempio è stato detto che la differenza tra il numero dei posti in carcere e il numero di persone recluse è oggi inferiore rispetto ad alcuni anni fa, riconoscendo tuttavia che le carceri sono ancora sovraffollate e che è necessario non interrompere gli sforzi per risolvere il problema. Inoltre è stata sottolineata l’importanza di aver finalmente istituito un meccanismo indipendente di controllo di tutti i luoghi di privazione della libertà. Infine, il governo italiano ha ammesso che i detenuti stranieri sono sovra-rappresentati in carcere anche a causa della difficoltà di accesso a misure alternative alla detenzione.

Altre risposte sono state del tutto non condivisibili. Il governo italiano ha difeso gli accordi bilaterali per i rimpatri da stipularsi anche con Paesi che sappiamo non garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali. Ha difeso il sistema degli hotspot, che ha invece dato ampia prova di forzare le procedure di identificazione verso decisioni molto semplificate su chi ha diritto di asilo e chi no, rischiando ampiamente di basare tali decisioni su protocolli automatici che mai arrivano a considerare il caso individuale. La delegazione italiana ha anche difeso l’indipendenza dell’Unar, l’Ufficio nazionale antidisciminazioni razziali negando quel che è sotto gli occhi di chiunque, vale a dire la sua dipendenza dal governo, che tra le altre cose può rimuoverne il direttore a piacimento.

Altre risposte ancora hanno avuto il sapore della presa in giro, della falsità o della esplicita farsa. Quando il Comitato ha chiesto conto del fatto che l’Italia non si sia ancora dotata di un’istituzione nazionale indipendente sui diritti umani secondo i cosiddetti Principi di Parigi del 1991, il governo ha risposto che c’è attualmente una grande discussione attorno al tema. Un membro del Comitato ha seccamente ribattuto che è dal 2006 che l’Italia sostiene di portare avanti questa grande discussione e che nel 2010 affermò testualmente che un disegno di legge in tal senso sarebbe stato approvato entro un mese o due. Inoltre il Comitato ha chiesto perché la tortura in Italia non costituisca ancora reato e quali sono le resistenze ad approvare la relativa legge. Una rappresentante del ministero della Giustizia ha borbottato qualcosa sul fatto che il tema è molto importante per l’Italia soprattutto dopo il G8 di Genova, ma non ha saputo dire altro. Un altro rappresentante del medesimo dicastero ha sostenuto che l’Italia ha da poco introdotto la pena alternativa della detenzione domiciliare. Si tratta molto semplicemente di un’affermazione falsa. Da vari decenni, la detenzione domiciliare è solo una misura in cui parte della pena carceraria può essere convertita. Nel 2014 il Parlamento delegò il governo a introdurre la detenzione domiciliare come pena principale, ma lo stesso governo fece scadere i tempi della delega.

La farsa è stata esplicitamente rappresentata quando il Comitato ha chiesto conto di quanto denunciato da un rapporto di Amnesty international: negli hotspot c’è stato uso di violenza nei confronti di chi rifiuta di farsi prendere le impronte digitali. Il rapporto, nonché il membro del Comitato che ha posto la domanda, intendeva ovviamente sostenere che chi si rifiuta di farsi identificare potrebbe subire maltrattamenti volti a fargli cambiare idea. Davanti a un’aula attonita, la rappresentante del ministero dell’Interno ha risposto che la denuncia di Amnesty International va respinta al mittente poiché internamente contraddittoria: se infatti si spinge con troppa forza il dito sul foglio di carta l’impronta non viene bene e dunque gli addetti all’identificazione non possono che agire sempre con grande delicatezza.