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Rugby Sei Nazioni 2017: l’Italia di O’Shea può far bene, ma non peggio

La prima volta non si scorda mai: c’è un misto di eccitazione, tensione e grandi aspettative. Per questo il Sei Nazioni 2017 non sarà un’edizione qualsiasi per l’Italia: è la prima dell’epoca di Conor O’Shea sulla panchina azzurra, il tecnico irlandese chiamato a risollevare il rugby italiano dopo i disastri degli ultimi due anni. C’è un allenatore fresco, motivato e di caratura internazionale. Un gruppo giovane, in piena rifondazione, ma con un’ossatura ormai già ben definita. E il calendario migliore possibile (Galles, Irlanda e Francia in casa) sulla carta.

Il 2016 è stato l’annus horribilis dell’ovale azzurro. Un Sei Nazioni disastroso (tutte sconfitte e cucchiaio di legno), con una nazionale evidentemente a fine ciclo, dopo l’ennesimo mondiale fallimentare (eliminati al primo turno). Ora si riparte su altre basi. Quelle di Conor O’Shea, “l’uomo della Provvidenza”, almeno nelle intenzioni del presidente federale Giavazzi. L’irlandese, in realtà, sta lavorando già da metà 2016 e si può dire che nell’ultimo anno qualcosa sembra essere cambiato per la nazionale azzurra. Idee molto più chiare rispetto all’ultimo, confuso Brunel. Schemi precisi, intensità e disciplina. Anche la rosa è stata svecchiata: hanno lasciato alcuni grandi vecchi (a partire da Castrogiovanni), sono entrati altri nuovi, soprattutto i tanti giovani che si erano affacciati in nazionale sono cresciuti sotto la chioccia di capitan Parisse, a 33 anni guida sempre insostituibile (ma ancora per quanto?) in mezzo al campo. Oggi l’Italia ha una rosa giovane (26,7 l’età media del XV titolare di domenica, che si abbassa a 26,4 prendendo in considerazione tutto il gruppo dei 32 convocati) ma già collaudata. Con una mediana (Canna-Gori i titolari, con Allan e Violi in alternativa) finalmente all’altezza, forse la più forte di sempre dai tempi di Dominguez-Troncon.

Il salto di qualità passa dagli uomini, ma non solo se si considera che la generazione d’oro dei vari Castrogiovanni, Bergamasco e Parisse ha raccolto molto meno delle attese nell’ultimo decennio. È questione anche di attitudine, e su questo sta lavorando O’Shea. “Mi aspetto 400 minuti di grande prestazione”, ha detto l’irlandese, centrando quello che è stato sempre il limite atavico della nostra nazionale: concentrazione e continuità. In questo senso qualcosa si è già visto nei test match autunnali: l’Italia ha battuto il Sud Africa, portando a casa una vittoria storica (contro una squadra comunque in profonda crisi); ma poi ha perso all’ultimo secondo una partita praticamente già vinta contro le Isole Tonga.

Al Sei Nazioni adesso si fa sul serio: è la prova del nove per capire in che direzione sta andando il rugby azzurro. Negli ambienti della nazionale sognano addirittura tre vittorie, che sarebbe il record storico nel torneo. “Ma ci accontenteremmo di cinque partite giocate alla pari. E poi vedremo quale sarà il risultato all’ottantesimo…”. Anche il calendario può dare una mano agli azzurri: l’Italia debutterà domenica 5 febbraio in casa contro il Galles. Contro Irlanda (sabato 11, in casa) e Inghilterra (domenica 26, a Twickenham) sfide forse proibitive. Ma la chiusura potrebbe riservare gioie, a patto di non deprimersi: sabato 11 marzo all’Olimpico contro i cugini della Francia (battuti spesso di recente), sabato 18 il gran finale in Scozia, campo dove l’Italia ha già vinto. I presupposti per far bene, insomma, ci sono tutti. Più che altro sarà difficile far peggio.

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