Cultura

Anne de Carbuccia, l’arte al servizio del pianeta

Ogni sua location è un set a cielo aperto, dalle vette dell’Himalaya agli abissi dell’Oceano Indiano, dal cimitero dei rinoceronti in Kenya alle piramidi d’immondizia della terra dei fuochi di Afragola.

Ogni sua installazione è una storia da raccontare. Sei anni di ricerca in giro per il mondo, un programma di assimilazione del territorio in pericolo e una missione: salvare il pianeta. Fortemente evocativo il titolo della mostra ONE, che sta per One Planet, One Future. Con il quale Anne de Carbuccia ha celebrato con un migliaio d’invitati il finissage al Westbeth Center for the Arts. Ha affittato lo studio che una volta era di Lou Reed. Prima tappa di una mostra itinerante che da Miami sbarcherà anche a Napoli. Visto che proprio da qui davanti alle piramidi d’immondizia è maturata la sua consapevolezza, quella di mettere la sua arte al servizio del pianeta.

Mozzafiato gli effetti speciali della mostra: uno specchio d’acqua verticale per ricordare quando l’uragano Sandy aveva sommerso lo spazio espositivo sotto una cascata d’acqua. E all’ombra di un filare di alberi “piantati” apposta per ricordare che foreste e mare (e non solo) sono in pericolo. E che la riforestazione urbana è una strada percorribile.

La mise en scene di elementi forti come il teschio (la vanitas) e la clessidra, simbolo del tempo in fuga diventano il filo conduttore di ogni foto/tableaux di 20 metri. Su un mare di sale di Laddakh posa pietre sacre su un osso di balena con la stessa ritualità con la quale entrerebbe in un tempio in punta di piedi. In Laos è attirata da fossili di piante che sembrano sculture, all’isola Grenadine denuncia l’erosione della barriera corallina. Passa come una meteora dai ghiacciai dell’Antartide alle dune di sabbia rossa del Rub’ Al-Khali.

Anne, bellezza statuaria e occhio blu chiaro che guarda lontano, ha la tempra dura del corso, è cresciuta a Parigi e ha studiato a New York alla Columbia University storia dell’arte e antropologia.

Poi è ritornata a Parigi e ha lavorato per Drouot, tra le più antiche case d’aste del mondo. Da sempre appassionata di culture primitive, adesso vive a Milano, marito italiano e tre figli, e in zona Lambrate ha trasformato un capannone industriale nel suo opificio. Non si risparmia nessuna fatica fisica: a Lampedusa il ciclone colpisce il suo obbiettivo e ci sono voluti quattro mesi di allenamento per arrampicarsi fino a 5600 metri per fotografare l’Everest ferito a morte. Disseminato di “scheletri” di bombole d’ossigeno, buttate lì da escursionisti senza scrupoli, praticamente una discarica a cielo aperto.

“Ho lavorato con tante specie animali pericolose. Ma fra tutte la più pericolosa è l’uomo. Il nostro pianeta lo abbiamo solo avuto in prestito dai nostri padri e lo dobbiamo consegnare alle future generazioni in condizioni accettabili. Perché alla fine capisci che le cose che davi per scontato, adesso contano davvero”, chiosa Anne che ha appena celebrato il Thank’s giving in una riserva degli indiani d’America, ormai ridotti a un ghetto senza identità. Dove gli stanno costruendo sotto al naso un pipeline mostruoso. E ha dato voce agli ambientalisti che si fanno chiamare water protectors not protestors. Arrivata in Italia è corsa a fotografare il Po fuori dagli argini con le capuzzelle degli alberi che uscivano dall’acqua.

L’artista filantropa adesso è invitata nelle scuole e nelle università e con l’impegno incessante della sua Fondazione Time Shrine consegna il suo messaggio al mondo. Il suo mantra.