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Acqua pubblica, le ragioni di chi la vorrebbe dare ai privati e il paradosso del referendum

Il modello della gestione pubblica era sbagliato: nei decenni passati ha provocato disastri che stiamo ancora pagando. Ripagare il capitale è l’unico modo perché gli investimenti siano trasparenti e si possa scegliere cos’è meglio

L’emendamento del Pd che ha suscitato molte tensioni nel dibattito politico di fatto abolisce il risultato, votato con un referendum da 26 milioni di persone, che in sintesi chiedeva due cose: che gli affidamenti in concessione per i servizi idrici dovessero riguardare solo soggetti interamente pubblici (nemmeno società mista a maggioranza pubblica), e che in alcun modo i capitali necessari al servizio potessero essere remunerati. Tale risultato va contro la normativa europea che, al fine di ridurre i costi, promuove sempre gli affidamenti in gara, pur non esprimendo (giustamente) alcuna preferenza tra soggetti pubblici o privati. Ciò premesso, cercheremo di dimostrare che nonostante le apparenze, il titolo non è un paradosso provocatorio.

La gestione dell’acqua, prevalentemente pubblica e senza gare, nei decenni passati ha provocato un disastro che dovremo in ogni caso pagare, a chiunque poi tocchi: perdite di un terzo per mancanza di investimenti e manutenzione, costi arretrati per queste voci stimati dai 30 ai 60 miliardi, come una o due Alte velocità. Anche i livelli di evasione delle attuali basse tariffe sembrano molto elevati (“tanto qualcuno pagherà”). Questo è lo stato di fatto, con debite variazioni locali intorno alla media (ma ci sono sempre).

In cosa consiste la socialità di un servizio? Non sembra ci siano molti dubbi possibili: dal fatto che le tariffe, a parità di qualità, siano sussidiate, cioè siano più basse dei costi di produzione del servizio stesso. Possono poi essere più basse per tutti, o in particolare per alcune categorie sociali, se non si vogliono sussidiare i ricchi. Sono scelte squisitamente politiche, e possono variare caso per caso, anche in funzione delle risorse pubbliche disponibili, delle priorità sociali (acqua o trasporti?), dei costi tecnici di erogazione del servizio (pianura irrigua, o aree montane aride). Anche la qualità del servizio da erogare può legittimamente dipendere da queste variabili, e sempre di una scelta politica si tratta. Cosa c’entra con la socialità il modo con cui il servizio è prodotto? Nulla, se non per un aspetto essenziale: deve essere prodotto a costi minimi (sempre a parità di qualità), e questo per ovvie ragioni sociali. Così si possono erogare più servizi, o a tariffe più basse.

Ora, il referendum parlava solo del modo di produzione (che doveva essere tutto e solo pubblico), facendo credere ai cittadini che obiettivi sociali e modo di produzione coincidessero. Ma escludeva in questo modo la principale possibilità di minimizzare i costi, che per definizione, e per tutti i servizi, è proprio dato dall’affidamento in gara (periodica, non perpetua, e certo non truccata). Solo questo chiede l’Europa, e questo lo fa per tutti i servizi. Se i gestori pubblici, in gare non truccate, si dimostrano più efficienti per un dato periodo, vinceranno sui privati.

Cosa significa “dimostrarsi più efficienti”? Significa chiedere agli enti locali meno soldi e/o garantire tariffe più basse per gli utenti, a parità di qualità richiesta dal bando di gara. Se la qualità non sarà rispettata, una gara non truccata deve prevedere penalità severe e/o la decadenza anticipata della concessione.

Ora resta da dimostrare che tendenzialmente gare non truccate le vincerebbero i privati (le eccezioni poi sono sempre possibili…). Il ragionamento è banale: avrebbero meno vincoli politici dei soggetti pubblici, per i quali è dominante il “voto di scambio” con gli addetti e i fornitori. Se ci sono dubbi, basta vedere i risultati pratici di decenni di gestioni senza gare (“tanto qualcuno pagherà”). I privati poi rischierebbero, se fanno un cattivo servizio, di rovinarsi la reputazione, a cui tengono moltissimo, per altre gare, o di non essere nemmeno ammessi alla gara successiva. Questo rischio i soggetti pubblici certo non lo hanno.

Ma i privati potrebbero corrompere i giudici della gara (e spesso lo fanno, mica sono santi). Ma dovendo fare offerte al ribasso, devono averci poi anche in più i soldi per le mazzette, cosa non facilissima. E non basta: avrebbero due poliziotti invece di uno a sorvegliare la gara. Quelli ordinari anticorruzione, ma anche i concorrenti, che spesso intervengono attivamente, non per senso civico, ma per non farsi portar via il lavoro. Comunque, cosa c’è da perdere rispetto a gestioni pubbliche catastrofiche o alle gare truccate fatte finora?

Un altro aspetto del referendum sull’acqua pubblica concerne il divieto di remunerare, in questo settore, i costi di capitale. Si dà il fatto però che il capitale, anche pubblico, un costo ce l’ha comunque (le dimostrazioni tecniche sono complicate e noiose, ma non controverse: una cosa scarsa ha sempre un costo). Meglio esplicitare questo costo, e questo per ragioni democratiche: così la scelta politica di fornire il servizio a tariffe agevolate, o anche a gratis, sarà più trasparente. Si saprà a quanto realmente si rinuncia in favore di quella scelta. Altrimenti si tratta di un sussidio occulto.

Abbiamo avuto leggi sbagliate, e sono state duramente e giustamente criticate, e abbiamo anche eletto presidenti del Consiglio sbagliati, e sono stati duramente e giustamente criticati. Ma forse abbiamo avuto anche un referendum sbagliato, nella forma e nella sostanza, che a suo tempo è anche stato duramente e giustamente criticato, in particolare da 150 docenti di economia di ogni colore politico.

Da Il Fatto Quotidiano del 23/03/2016