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Srebrenica vent’anni dopo, genocidio? Quel che conta è ‘mai più’

La memoria dell’eccidio di Srebrenica, e i sensi di vergogna, pietà, impotenza, che porta con sé, almeno in Occidente, perché altrove sono rabbia, odio, disperazione, non avevano davvero bisogno di essere appesantiti dal dibattito, sterile e provocatorio da ambo le parti, se la tragedia bosniaca sia stata o meno genocidio.

Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, su questo punto, s’è spaccato: il veto della Russia, chiestole da Belgrado, e l’astensione della Cina, ma anche di Angola, Nigeria e Venezuela, Paesi fra loro diversissimi, ma tutti segnati da storie di confronti interni aspri oltre il limite della guerra civile, fanno emergere per l’ennesima volta i crinali dell’ingerenza umanitaria e dei conflitti etnici e religiosi interni a un Paese.

La Russia ha motivato il veto definendo il documento proposto “non costruttivo, aggressivo e politicamente motivato”. E così la commemorazione del massacro vent’anni dopo diviene un altro capitolo della nuova Guerra Fredda e l’ennesima testimonianza dell’immutabile atteggiamento filo-serbo russo. Ma che un documento dell’Onu lo bolli, o meno, come genocidio, che cambia alla realtà dei fatti?

Chi scrive non ha le competenze di diritto internazionale per esprimere un’opinione sull’applicabilità, o meno, della definizione all’episodio e, più in generale, al conflitto bosniaco. Ma, in fondo, in questo caso come nell’altra recente analoga discussione sull’uso del termine genocidio, partita nel triangolo Turchia-Armenia-Vaticano e rapidamente divenuta universale, quello che conta è mantenere la memoria di quanto accaduto, nutrirne l’orrore e, soprattutto, attrezzarsi perché eventi analoghi non si ripetano.

E, su questo punto, vent’anni dopo, l’umanità non è al riparo da altre tragedie siffatte, o peggiori: l’efficienza dell’Onu non è migliorata, la governance mondiale non s’è dotata d’organi di giudizio e d’intervento efficaci e tempestivi.

Certo, la mobilitazione internazionale per l’anniversario del massacro è impressionante: oltre 90 delegazioni –per l’Italia, la presidente della Camera Laura Boldrini, una che conosce e difende il valore dei diritti dell’uomo-, il presidente Usa del tempo Bill Clinton ed il suo segretario di Stato Madeleine Albright, i leader di tutti gli Stati dell’ex Jugoslavia, l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue Federica Mogherini assisteranno oggi alle cerimonie ufficiali di commemorazione degli 8000 musulmani sterminati nel luglio 1995 dalle truppe serbo bosniache del generale Ratko Mladic.

E tutto intorno fioriscono iniziative politiche e solidali, Angela Merkel ha portato a Sarajevo il sostegno della Germania all’adesione della Bosnia all’Ue. La Scala vi farà un concerto e il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni vi assisterà.

Il ricordo è ancora vivo; i sensi di colpa dei responsabili e la percezione dell’inadeguatezza di quanti –organismi internazionali e militari delle unità di pace presenti in loco, ma imbelli e inutili- non seppero impedire quanto avvenne sotto i loro occhi sono riconosciuti e palesi.

Le ricostruzioni storiche non sono ancora definitive, anche se è chiaro che il massacro fu una violenza pianificata e che l’Occidente preferì fingersene sorpreso. L’individuazione delle responsabilità non è stata ancora completata, ma Mladic è sotto processo. Però, altre Srebrenica sono ancora possibili, forse stanno avvenendo nel mondo, tra la Siria e l’Iraq, in Nigeria o altrove in Africa, nell’Asia più remota. E la comunità internazionale non s’è dotata di strumenti per impedirle né mostra la volontà di farlo presto: genocidio o meno, piangere i morti può anche essere un atto di ipocrisia; riuscire a impedirli, sarebbe un atto di responsabilità.