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Ripresa economica in Europa? Krugman e Fmi mettono in guardia

Non passa giorno che qualche ‘trombettiere’ di Renzi, o Renzi stesso, non appaiano in qualche notiziario televisivo per informarci che la ripresa economica è già cominciata; che adesso non bisogna ‘mollare’; che bisogna assolutamente insistere, siamo sulla giusta strada e tra un paio d’anni, ma forse meno, saremo completamente fuori da questa crisi. Poi però arriva subito il monito (come si fa coi bambini)… solo a condizione che le riforme vengano completate subito, altrimenti la ripresa si fermerà. E naturalmente gli fanno subito eco i compari da Bruxelles e le comari da Bankitalia e Confindustria… sì, sì, guai a fermare le riforme adesso.

Ma davvero ci può essere qualcuno, a Roma come a Bruxelles, che crede che le riforme imposte all’Italia a tappe forzate da Renzi abbiano la forza di far ripartire l’economia italiana come fanno i funghi nella stagione umida? Qualche riforma c’è che interessa davvero ai ‘draghi’ dell’economia europea (e ai nostri falchi confindustriali), come il Jobs Act e altre che riguardano la tassazione, ma che siano quelle la forza che ha spinto l’attuale ripresina economica, è solo un canto delle sirene.

Ciò che ha permesso di sbloccare la ripresa è una droga pesantissima di nome Quantitative Easing (QE) che inietta liquidità nel sistema economico europeo a colpi di 60/miliardi di euro al mese e una drastica svalutazione dell’euro, circa il 30% (per ora), nei confronti del dollaro e delle altre principali valute. Sono entrambe due manovre di politica monetaria, quindi non sono una politica di investimenti capaci di produrre vera nuova ricchezza, ma solo uno stimolo temporaneo che potrebbe dissolversi presto e lasciare le cose anche peggio di prima. Inoltre sono state attuate molto in ritardo rispetto al tempo in cui avrebbero potuto avere la massima efficacia.

La svalutazione della moneta è la più classica delle operazioni monetarie utilizzate per rilanciare una economia. Svalutando la moneta si rendono più competitivi i prezzi dei prodotti venduti all’estero. Naturalmente il rovescio della medaglia è che si deve pagare di più ciò che si compra dall’estero, ma questo potrebbe essere uno stimolo, dove è possibile, a produrre di più nel proprio Paese, attivando così anche una positiva politica del lavoro. (Di cui certamente non può prendersi il merito il governo Renzi, a meno che siano merito suo le due politiche monetarie avviate). Il Qe è di fatto nient’altro che una cessione del credito dalla banca ordinaria alla Banca Centrale. Tecnicamente funziona così: la Banca Centrale ‘acquista’ titoli di Stato od obbligazioni da banche ordinarie (ma sarebbe meglio dire “subentra nella gestione del credito”). Infatti, dato che per la banca ordinaria quel credito a media-lunga scadenza costituiva un immobilizzo finanziario che le impediva di fare nuove operazioni, la cessione alla Banca Centrale di quel credito le fornisce nuova liquidità con cui operare (l’efficacia dell’operazione dipende però da come userà la nuova liquidità).

Analizzando più a fondo l’operazione, dato che la Banca Centrale non può fallire, essendo garantita dallo Stato cui appartiene, si ha semplicemente lo spostamento del rischio dal debitore originario alla banca ordinaria e poi dalla banca ordinaria alla Banca Centrale. Se ci sarà la ripresa il debitore originario pagherà il suo debito alla Banca Centrale invece che alla banca ordinaria e tutto andrà a posto felicemente, ma in caso di nuova crisi e di impossibilità del debitore originario di pagare, chi assorbirà le eventuali perdite? La Banca Centrale può solo metterle a carico della fiscalità generale (scherzando si potrebbe dire che il rischio del too big to fail è risolto in anticipo con una triangolazione che evita alla grande banca di trovarsi in mano il debito che scotta nel momento meno opportuno).

Quindi è chiaro il perché i Paesi meno indebitati si opponevano così tenacemente a dare il via libera alla operazione Qe, e lo hanno fatto solo dopo che la situazione rischiava di trascinare tutti in una disastrosa deflazione. L’insistenza e la fretta di fare riforme che nulla c’entrano con l’efficacia della politica monetaria in atto costituiscono peraltro il vero rischio di tutta la manovra. Primo, perché la sciagurata insistenza sulla politica di austerity è solo stata parzialmente sospesa in presenza di una situazione contingente disperata (crescente deflazione), quindi c’è da aspettarsi che al minimo accenno di ripresa i falchi dei sacrifici a tutti i costi farebbero credere proprio che il merito della ripresa è da imputare proprio all’austerity (che è invece la vera causa della crisi), che verrebbe quindi riproposta non appena possibile.

Il premio Nobel Krugman avverte (con la solidarietà del Fondo Monetario Internazionale) nel suo recente articolo Eurobounce (il rimbalzo dell’euro) che questo potrebbe portare l’intera Europa ad un lungo periodo di ‘giapponesizzazione’ dell’economia, perché la rinnovata austerità sarebbe una vera e propria doccia gelata sulla ripresa. In conclusione quindi, anche se gli attuali modesti segnali di ripresa producono qualche moderato ottimismo sarebbe un grosso errore, che potrebbe diventare persino tragico, se davvero attribuissimo a questa ripresa un significato che non può avere. E tanto meno si può essere ottimisti vedendo che i massimi livelli della nostra economia attribuiscono il merito della ‘ripresina’ a riforme che sostanzialmente non c’entrano quasi niente con ciò che sarebbe davvero necessario fare per avviare una vera ripresa economica.

Per parlare di vera ripresa bisogna vedere l’ indice della disoccupazione scendere al di sotto del 6% e la distribuzione della ricchezza prodotta girare anche nelle fasce medio-basse della popolazione. Occorre premiare chi investe a livello nazionale e mettere ostacoli di ogni genere a chi vuole investire all’estero. Bisogna incentivare le imprese e disincentivare le speculazioni finanziarie. Finché non sarà così saranno solo chiacchiere.