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Corte dei conti: “Su evasione fiscale norme contrastanti, manca una strategia”

I magistrati contabili arrivano a scrivere che "la prospettiva di condoni e sanatorie rende autolesionistico" pagare correttamente tutte le tasse. Anche perché i controlli sono pochi, le multe esigue e le sanzioni penali restano spesso inapplicate. Nel frattempo approda in commissione al Senato il decreto sul rientro dei capitali: dubbi di tecnici e gruppo Pd

Mentre in Senato accelera l’esame del disegno di legge sul rientro dei capitali, che esclude la punibilità per chi ha frodato il fisco se aderisce alla procedura di collaborazione volontaria, la Corte dei Conti demolisce la strategia di lotta all’evasione dei governi italiani degli ultimi 40 anni. Spingendosi a scrivere che nel quadro attuale, con la prospettiva di una sanatoria sempre all’orizzonte e controlli insufficienti, chi paga puntualmente le tasse dovute è un “autolesionista”. I magistrati contabili, nella relazione sugli effetti prodotti dall’azione di controllo sui contribuenti, rilevano innanzitutto che le misure fiscali approvate in questi decenni hanno una mole “rilevante”, ma il risultato è una normativa “spesso contraddittoria e mal coordinata, adottata sulla spinta di emergenze contingenti e quasi mai inquadrata in una strategia di lungo periodo di contrasto all’evasione fiscale”. Non solo: più le norme si sovrapponevano senza un ordine, più il sistema fiscale italiano diventava ingiusto, “discostandosi dal modello teorico” basato sulla progressività e sull’apporto di tutti i cittadini in base alla capacità contributiva. Oggi, rileva la Corte, c’è una forte “sperequazione (una divisione iniqua, ndr) tra il livello di contribuzione del lavoro dipendente e di pensione e quello derivante dallo svolgimento di attività economiche indipendenti”. Basti pensare che nel 2013 il 79% del gettito Irpef è arrivato dalle ritenute fatte dai datori di lavoro e dall’Inps.

Paghi tutte le tasse? Sei autolesionista – Ancora peggiore il quadro dei controlli e delle sanzioni. Il sistema dei controlli fiscali funziona male, è ‘depotenziato‘ e non ha più il necessario effetto deterrente. I motivi? In primo piano “la ricorrenza di condoni e sanatorie, la cui prospettiva rende autolesionistica la condotta di chi adempie correttamente e tempestivamente all’obbligazione tributaria”. Insomma, se hai la fondata speranza di passarla liscia con effetto retroattivo – come potrebbe presto avvenire, grazie al decreto sull’abuso del diritto, per chi ha presentato dichiarazioni infedeli per cifre fino a 200mila euro – perché dovresti saldare tutto il dovuto? Ma la lista dei motivi per cui gli evasori dormono sonni tranquilli non finisce qui. La Corte ci aggiunge il “basso numero di controlli rispetto al numero di contribuenti ‘a rischio’ (in media un controllo ogni trent’anni e più di svolgimento dell’attività, almeno per la maggior parte delle piccole imprese e dei professionisti)”, l’”esiguità delle sanzioni amministrative alle quali il contribuente infedele è stato esposto, almeno finora, nell’ipotesi di definizione bonaria dell’accertamento (pagamento di una somma pari al 16,66% dell’imposta evasa in caso di infedele dichiarazione definita sulla base del verbale o dell’invito al contraddittorio)” e la “scarsa efficacia delle sanzioni penali“, che sono “in gran parte dei casi destinate a restare inapplicate per prescrizione del reato” o per la “remota probabilità di effettiva applicazione della sanzione detentiva in caso di condanna”. Pesano, ovviamente, “i tempi dei procedimenti”, ma anche i “comportamenti dilatori della difesa”. In ultima analisi, secondo la magistratura contabile, “il sistema penale-tributario in assenza di un’organica riforma dell’intero sistema repressivo penale presenta oggi limitate possibilità di contrastare i più spregiudicati e insidiosi comportamenti fiscali”. Ciliegina sulla torta, le procedure di riscossione coattiva che risultano decisamente “attenuate” a causa di “ripetuti interventi legislativi”.

Il sistema dei controlli è ‘depotenziato‘ e non ha più effetto deterrente

Quelle norme cambiate cinque volte – A proposito di interventi ripetuti e inversioni di rotta, la Corte già nel Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica per il 2013 “ha avuto modo di rilevare come essa sia stata caratterizzata da andamenti ondivaghi e contraddittori”. Qualche esempio? Gli elenchi telematici di clienti e fornitori, introdotti nel 2006, soppressi nel 2008, reintrodotti parzialmente nel 2010 e riportati sostanzialmente all’impostazione originaria nel 2012. O le limitazioni al pagamento in contanti: nel 2007 è stato disposto un tetto di 1.000 euro, elevato a 12.500 euro nel 2008, ridotto a 5.000 nel 2010, poi ancora abbassato a 2.500 euro nel corso del 2011 e infine riportato a 1.000 euro dal 2012. Una confusione che “denota l’esistenza di storiche divisioni politiche e sociali su un tema, quello del contrasto all’evasione, che, per sua natura e rilevanza, dovrebbe costituire elemento di piena condivisione e concordanza di obiettivi”. Nonostante questo tutti gli esecutivi, storicamente, hanno fatto fin troppo affidamento sul recupero di gettito evaso per coprire i buchi della finanza pubblica: dalle manovre finanziarie degli ultimi sei anni emerge che “sugli oltre 200 miliardi di maggiori entrate attese per il periodo 2006-2011, la quota intestata a misure di contrasto all’evasione è pari a oltre un terzo (35,5 per cento)”.

La correttezza fiscale affidata alla “lealtà del singolo” – Con il passare degli anni, “l’affievolimento del sistema sanzionatorio e il mancato potenziamento operativo dell’apparato di controllo” hanno “vanificato la razionalità teorica di un sistema fiscale basato sull’adempimento spontaneo, quale è quello che riguarda i circa 5 milioni di contribuenti che operano nel settore delle attività indipendenti”. Insomma: oggi “la correttezza fiscale sembra affidata più alla lealtà del singolo contribuente che a un organico sistema di regole alla violazione delle quali si riconnettano adeguate e certe conseguenze sfavorevoli”. Uno scenario che l’organo di controllo presieduto da Pasquale Squitieri si spinge a definire “desolante“. E di fronte al quale riporre tutte le speranze nel “miglioramento del rapporto tra fisco e contribuenti”, sempre invocato dalla direttrice dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi, o “nell’onore” accompagnato da “regole più semplici”, come auspicato dal premier Renzi, è un chiaro errore di prospettiva. C’è l’esigenza, rilevano i magistrati contabili, di “una diversa strategia di contrasto dell’evasione, basata in primo luogo sull’impiego della tecnologia“, sia per fare emergere i redditi nascosti “attraverso l’introduzione della fatturazione elettronica nei rapporti tra soggetti Iva e la diffusione degli obblighi di pagamento tracciato e di comunicazione telematica dei corrispettivi” sia “in chiave persuasiva e conoscitiva”.

L’evasore spesso ottiene, oltre ai frutti diretti del reato, anche benefici dello Stato sociale

Iva e Irpef troppo esposte all’evasione: serve una riforma – Negli auspici della magistratura contabile l’amministrazione fiscale dovrebbe essere “non più solo orientata a un’azione repressiva e reattiva, ma anche fortemente impegnata a indurre comportamenti coerenti nella fase dell’adempimento”. Scendendo nel dettaglio occorre rivedere “alcuni meccanismi dell’Iva, tributo che per le sue caratteristiche si presta in molti casi ad amplificare i vantaggi dell’evasione, assicurare un adeguato bilanciamento del rapporto tra frequenza dei controlli ed entità del rischio sopportato e riequilibrare il sistema di riscossione”. Per fortuna “sembrano andare in questa direzione”, si legge nel rapporto, alcune delle misure previste dal disegno di legge di Stabilità 2015. In particolare “quelle volte a favorire l’adempimento volontario, attraverso la messa a disposizione delle informazioni fiscalmente significative prima dell’adempimento, e quelle finalizzate ad estendere i casi di reverse charge (la possibilità di far pagare l’imposta non più al venditore ma all’acquirente, ndr) allo scopo di spostare l’obbligo fiscale Iva sui soggetti maggiormente affidabili”. Quanto all’Irpef, “è per sua natura particolarmente esposta all’evasione, sia per l’ampiezza della base imponibile a rischio, sia per la progressività che caratterizza le sue aliquote, sia, infine, per il legame che si viene a instaurare tra evasione fiscale ed evasione da spesa sociale: l’evasore fiscale, infatti, riesce spesso a collocarsi in posizione reddituale utile per conseguire, in aggiunta ai frutti diretti dell’evasione, anche i benefici dello stato sociale”.

Tecnici e gruppo Pd chiedono modifiche al decreto su Rientro capitali – Nel frattempo i tecnici del Senato stanno esaminando il ddl sul rientro dei capitali, appena approdato alle commissioni Finanze e Giustizia di palazzo Madama che dovranno vagliare i 128 emendamenti depositati dai gruppi. L’obiettivo dichiarato del governo è licenziare il testo senza modifiche e mandarlo in aula già questa settimana, ma i primi rilievi, e il fatto che anche il gruppo Pd a sorpresa abbia presentato proposte di modifica, fanno pensare che il percorso sarà accidentato. Il servizio studi del Senato ha infatti diversi dubbi sul decreto. La norma in base alla quale la collaborazione volontaria “esclude la punibilità” sia della dichiarazione fraudolenta sia di quella infedele e omessa, innanzitutto, rischia di essere incostituzionale perché “di problematica conformità al principio di ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Costituzione”. Infatti, evidenziano i tecnici, “i comportamenti fraudolenti sono da considerarsi significativamente più gravi rispetto a quelli infedeli tenuto conto che, anche sul piano sanzionatorio, vi è una netta differenza tra i delitti in materia di dichiarazione contraddistinti da fraudolenza e gli altri. Non è un caso, infatti, che tanto la dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti falsi, tanto la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, sono delitti puniti con la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni, mentre l’infedele dichiarazione e l’omessa dichiarazione sono puniti con la reclusione da 1 a 3 anni”. Gli emendamenti del Pd, tutti e tre a prima firma del magistrato Felice Casson, riguardano invece il nuovo reato di autoriciclaggio e chiedono un inasprimento delle pene. Il testo attuale del ddl stabilisce che chi “lava” e riutilizza denaro da lui stesso ottenuto illecitamente rischia dai 2 agli 8 anni di carcere e una multa da 5mila a 25mila euro se “ha ostacolato concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa” e se il reato che ha prodotto i soldi sporchi è punibile con pena superiore a cinque anni. Se invece il reato presupposto è punibile con la reclusione fino a un massimo di cinque anni, per l’autoriciclaggio la pena scende a uno-quattro anni. Il primo emendamento del gruppo Pd chiede che il minimo sia riportato a quattro anni e la sanzione pecuniaria a un minimo di 10mila euro e un massimo di 100mila euro. In più anche “l’utilizzazione e il godimento personale” delle somme riciclate dovrebbe essere punibile. E si esclude la non punibilità per chi aderisce alla voluntary disclosure. Un altro emendamento prevede, in alternativa, di lasciare due soglie distinte ma aumentando gli anni di carcere: da 4 a 12 anni nel primo caso, da 2 a 6 nel secondo.