Cultura

CondèNast, cattiverie da fashioniste

Questo pezzo è dedicato al fenomeno meteorico del twitter dall’ascensore di CondèNast. Meteorico perché dopo pochi giorni si è dissolto. Come scoprirete fra poco, ci azzecca molto con le questioni di genere.

Per chi non lo sapesse, la CondèNast è l’editore del famoso giornale di moda (più di pubblicità che di moda) Vogue, la cui direttora è Anne Wintour, l’ispiratrice del famosissimo film “Il diavolo veste Prada”.

La Wintour forse nella realtà è anche peggio del personaggio interpretato da Meryl Streep. Di certo meno bella ed anche molto più feroce. È potente, tanto da aver costretto la Camera della Moda di Milano (sì, comanda anche qui) ad accorciare l’evento annuale per poter evidenziare solo le maison ‘amiche’ e relegare i piccoli stilisti indipendenti in spazi e momenti fuori dell’esposizione mediatica (ne parlò anche Report di Milena Gabanelli).

Più volte la Wintour è stata data per soccombente, ma è riuscita a rimanere salda al suo posto di comando planetario. Il che, per chi sa come funzionano le cose in quel giro, è davvero un’attestazione di testardaggine, potenza e pelosità gastrica.

Eppure, questo monolite editoriale si stava sfaldando per qualche byte di troppo.

Un ‘buontempone’ (ma anche furbo, o furba) aveva cominciato a postare, attraverso la piattaforma di microblogging Twitter, alcune frasi udite nell’ascensore della CondèNast (@Condelevator), che potete trovare ancora in rete, perché l’account è ormai muto da qualche giorno, dopo lo scandalo.

Senza alcun giudizio aggiuntivo, l’anonimo ha fatto conoscere a tutto il mondo la reale portata del livello cognitivo e sociale degli abitanti del fashion world di Vogue e dintorni (dagli stilisti ai redattori, dalle segretarie ai fashion adviser, e così via). Magari lo avevamo intuito, ma diffuso così, ‘al naturale’, è spiazzante.

Da quel poco che è arrivato anche in Italia, si capisce bene che è anche peggio delle ambientazioni del film.

Un esempio di dialogo: “Ciao tesoro! Buon giorno” “Buon giorno!” “Adoro il tuo vestito”. “Voglio le tue scarpe.”

È al tempo stesso atroce e disarmante. Come pure lo è lo scambiare (per cattiveria) una collana di Gucci per una di Banana Repubblic e altre carinerie simili.

È il mondo della moda, ma anche parte (sottolineo parte) del linguaggio femminile. Purtroppo. (Anche il linguaggio maschile ha le sue patologie, certamente, ma non è argomento del post odierno.)

Ho riflettuto se sia l’esasperazione del primo (mondo della moda) o del secondo (linguaggio di genere) o se sia la moltiplicazione dei due. Ma in gradazioni diverse, è una modalità esistente nelle tipologie dei linguaggi femminili.

Una sana vanità (al femminile è stereotipo, ma i maschietti non scherzano) è anche divertente, ma il parossismo dell’ascensore della CondèNast mi sembra patologico.

Nel film, l’eroina (Anne Hathaway, che personalmente trovo una specie di ‘triglialessa’, anche perché si lasciò ingenuamente ‘affascinare’ da quel Raffaello Follieri, sedicente finanziere e truffatore italiano, ora nelle carceri statunitensi) si salva andandosene e facendo downsizing (si ridimensiona, cioè), ma nella vita reale non ci si salva se non aumentando continuamente il livello di cinismo.

Il cinismo è uno degli aspetti esaltati nel narcisismo globale, quello che ha come slogan iniziatico “Io valgo”, lanciato da qualche anno dalla multinazionale della cosmesi L’Oreal (di cui abbiamo già scritto).

Come si può notare, è, anche quello della cosmetica, un mondo ‘femminile’ (in linguaggi e contenuti) che si allarga volentieri e trova terreno fertile nel narcisismo maschile.

Da sincera adepta del linguista Vygotsky, sono convinta più che mai che sia il linguaggio a forgiare il pensiero, non il contrario. E se si parla nel modo che ci ha riportato l’anonimo di @Condelevator siamo inguaiati!

Una sociologa famosa, Deborah Tannen, scrisse anni fa un bel libro (“Perché non mi capisci?”) in cui evidenziava tutte le differenze linguistiche (sintattiche e lessicali) che sottintendono agli universi di genere, concludendo che continuare a parlare ‘settorialmente’ non fa altro che allargare la scissione (l’Autrice la chiama schismogenesi, rifacendosi all’antropologo Bateson) tra gli universi psicosociali maschile e femminile, scissione che da linguistica diventa filosofica, psico-sociale ed antropologica, oltre che diventare una macchietta. Parlare meglio ci aiuterebbe a diventare persone migliori, suppongo. E, ovviamente, a non diventare caricature da ascensore.

Peccato, però, che abbiano interrotto le trasmissioni: una sana (auto)satira ci avrebbe vaccinato.

Voi che ne pensate?

Marika Borrelli