Economia

Il governo Meloni annaspa sulle pensioni. E l’opposizione non ha un piano alternativo – L’analisi

Pubblichiamo un intervento di Matteo Jessoula, ordinario di Scienza Politica all’università degli Studi di Milano

Da oltre un decennio la Lega salviniana brandisce la scure al grido “aboliamo la riforma Fornero”. Nel 2022 il programma elettorale di Fratelli d’Italia prometteva “flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso alla pensione” per favorire “il ricambio generazionale”, mentre Giorgia Meloni brindava al Capodanno 2023 richiamando la necessità di una “riforma organica […]

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Da oltre un decennio la Lega salviniana brandisce la scure al grido “aboliamo la riforma Fornero”. Nel 2022 il programma elettorale di Fratelli d’Italia prometteva “flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso alla pensione” per favorire “il ricambio generazionale”, mentre Giorgia Meloni brindava al Capodanno 2023 richiamando la necessità di una “riforma organica delle pensioni”. La scorsa estate, il ministro Giancarlo Giorgetti ha ribadito di voler sterilizzare l’adeguamento dell’età pensionabile previsto per fine 2026, incalzato dal sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon determinato a mantenere l’età pensionabile a 67 anni e a far balenare agli occhi dei lavoratori la cifra 64, “soglia di libertà pensionistica” secondo lo stesso sottosegretario.

Questi i proclami, le promesse, le illusioni di una coalizione di governo che, in campagna elettorale e al suo insediamento, ha sapientemente combinato elementi tipici dell’agenda neoliberista dei partiti della destra radicale – abolizione del reddito di cittadinanza in primis – con allusioni a misure di “carattere sociale” – tradizionalmente terreno fertile per i partiti di (centro-)sinistra – quali “asili nido gratuiti” e, appunto, l’accesso facilitato al pensionamento.

La realtà è però molto lontana dalle promesse e ben più avara per lavoratori e pensionati. Nei primi tre anni di governo, le politiche pensionistiche dell’esecutivo Meloni sono andate in direzione diametralmente opposta rispetto a quanto promesso, sia rendendo più difficile l’accesso al pensionamento anticipato, sia riducendo l’importo degli assegni. I criteri per accedere a “Opzione Donna” sono stati resi ben più stringenti con le leggi di bilancio 2023, 2024 e 2025; il famigerato sistema di quote – inaugurato dalla “Quota 100” leghista nel 2019 – è stato reso meno favorevole con il passaggio a “Quota 103”, che le successive leggi di hanno poi severamente penalizzato prevedendo sia l’applicazione del metodo contributivo che un importo massimo della pensione. Non solo, l’entrata in quiescenza a 64 anni (per i lavoratori soggetti al contributivo) tramite la pensione anticipata propriamente detta è stata anch’essa resa meno accessibile, incrementando il cosiddetto importo soglia a 3 volte il minimo pensionistico – pari a circa 1.800 euro mensili, un livello che rende ancora più penalizzante un istituto già severamente regressivo come le soglie di importo per il pensionamento. Infine, gli interventi sulla rivalutazione automatica hanno reso meno generosi gli assegni per quei pensionati che ricevono prestazioni oltre 4 volte il minimo (circa 2.400 euro/mese). Anche il blocco dell’età pensionabile a 67 anni è saltato, con la previsione nella manovra 2026 dell’incremento di un mese nel 2027 e altri 2 mesi nel 2028.

Di fatto, in campo pensionistico la “trazione” meloniana di chiaro stampo neoliberista – recentemente emersa anche sulla patrimoniale e a più riprese in tema di salario minimo – si è manifestata senza ambiguità, infrangendo le promesse di una destra sociale di orientamento populista. Le misure proposte nella legge di bilancio 2026 si collocano lungo tale linea di continuità.

Ovviamente, gestire lo scarto tra promesse elettorali e realtà, oltre ai contrasti tra i diversi partiti di governo, non è cosa facile: ciò spiega i distinguo e gli annunci di retromarcia della fase attuale, una fase che rivela un evidente affanno del governo in tema pensioni. A tentare di colmare lo iato tra promesse e realtà ecco, infine, l’intervento sul Tfr. Si tratta di una misura che modifica al margine le regole già esistenti circa la destinazione del Trattamento di fine rapporto ai fondi pensione negoziali tramite il meccanismo del “silenzio assenso”. Con le nuove norme, di fatto si accorcia (da 6 mesi a 60 giorni) il periodo entro il quale i lavoratori che non vogliono destinare il Tfr ai fondi pensione devono darne comunicazione.

Quando nel 2007 venne implementato il primo semestre di “silenzio assenso” vi fu sì un incremento delle adesioni, che non riuscì però a eliminare le più evidenti criticità della previdenza complementare – specialmente la copertura fortemente diseguale tra i diversi settori produttivi: il tasso di adesione salì infatti di ben 15 punti percentuali in quei fondi negoziali con tassi già superiori al 50% dei potenziali aderenti (settore chimico, energia, ecc..) e di soli 7 punti per i fondi con tassi di adesione inferiori al 20% (commercio, turismo, servizi). Le condizioni che ostacolarono il dispiegarsi del potenziale del silenzio-assenso sono tuttora presenti nel mercato del lavoro italiano: elevato numero di piccole/micro imprese, pressioni datoriali – in queste stesse imprese – per il mantenimento del Tfr in azienda, ampia quota di lavoratori atipici (a tempo determinato, part-time) con contratti di brevissima durata e a bassa retribuzione. A meno di sviluppi difficilmente prevedibili, l’esperienza storica suggerisce dunque che il provvedimento possa rappresentare una politica meramente simbolica o, al più, il tipico pannicello caldo sui problemi della previdenza italiana.

Tutto ciò è reso possibile dalla sostanziale inerzia dei partiti di (centro-)sinistra. L’opposizione, perennemente disunita e ancorata a paradigmi di policy disegnati trent’anni fa in un contesto ormai completamente superato, manca infatti di un piano organico, alternativo e credibile, in campo pensionistico. La direzione per (ri-)disegnare un sistema che sappia coniugare sostenibilità economico-finanziaria con adeguatezza delle prestazioni e congrua durata del pensionamento è chiara: equità sostanziale e rafforzamento dei meccanismi solidaristico-redistributivi nel pilastro pubblico ne devono rappresentare gli elementi essenziali. Finché le forze di sinistra non lanceranno il guanto di sfida, la destra potrà continuare a fare incetta di voti tradendo poi sistematicamente le promesse.