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Perché il cessate il fuoco a Gaza stenta a trovare applicazione

C'è un disaccordo di fondo sugli obiettivi della pacificazione, che sembrano restare troppo distanti tra le parti

di Claudia De Martino

Il 9 ottobre Israele e Hamas hanno firmato un accordo di cessate il fuoco limitato, che riguardava la prima fase del piano di Trump: il rilascio degli ostaggi e dei prigionieri, la cessazione delle ostilità, il ritiro parziale di Israele e un aumento degli aiuti umanitari nella Striscia. Il piano di Trump è stato poi approvato in un altro documento, la risoluzione 2803 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 17 novembre, che ha autorizzato un governo transitorio e una forza internazionale di stabilizzazione a Gaza. Tale piano dovrebbe coincidere con la cosiddetta “fase 2”, che, però, stenta molto a decollare.

Dall’ottobre scorso, infatti, sia Hamas che Israele hanno ripetutamente violato il fragile cessate il fuoco, uccidendo rispettivamente 3 e 400 persone, e Israele ha proseguito con i suoi “omicidi mirati” di capi dell’organizzazione. Tuttavia, per quanto grave, non è la continua scia di vittime a mettere a repentaglio il piano di pace di Trump, ma piuttosto il disaccordo di fondo sugli obiettivi della pacificazione, che sembrano restare troppo distanti tra le parti.

Il primo punto di dissenso riguarda la demilitarizzazione di Hamas: mentre Israele considera il disarmo come la consegna completa di tutte le armi, gli Stati Uniti lo considerano limitato alle armi offensive come i razzi, e non esteso a quelle di difesa personale come kalashnikov e pistole. Hamas, dal proprio canto, considera il disarmo completo una resa all’oppressore, impossibile senza contropartite reali, ovvero la fondazione di uno stato palestinese.

Hamas incarna infatti il rifiuto collettivo di accettare la perdita della propria terra e la profanazione dei propri luoghi sacri, portando avanti una lotta di liberazione nazionale palestinese che si oppone all’imposizione di trattati iniqui, tra cui, però, vengono annoverati anche gli Accordi di Oslo. Nella sua visione totalizzante della storia, legge l’esistenza stessa di Israele come una minaccia esistenziale, non distingue tra Israele legittimo e colonie post 1967, e ritiene che il genocidio a Gaza rappresenti solo l’ultimo episodio di una lunga catena ininterrotta di oppressione che prosegue inalterata dal 1948.

Dall’altro lato, l’attuale governo israeliano a guida Netanyahu si è altrettanto radicalizzato nelle sue posizioni: rigetta la prospettiva di uno stato palestinese, non accetta il ruolo costruttivo e moderato dell’Autorità Nazionale Palestinese, difende il proprio interesse strategico di intervenire militarmente in tutti i Paesi limitrofi qualora si profili una minaccia (o percepita tale), è tendenzialmente favorevole all’annessione della Cisgiordania (come il voto consultivo alla Knesset dello scorso luglio conferma), vorrebbe detenere indefinitamente il 53% della Striscia come “barriera di sicurezza” (incluso il valico di Rafah con l’Egitto), rafforzando di fatto lo stato di assedio esistente prima del 7 ottobre 2023.

In mezzo a queste due posizioni radicali, che si sostengono l’un l’altra, l’amministrazione Trump prova ad avanzare a tentoni, sorretta da una sola certezza: che si debba evitare con tutti i mezzi la ripresa della guerra da parte d’Israele. Per fare questo è necessario che la Forza Internazionale di Stabilizzazione entri nella Striscia di Gaza e si interponga come una forza cuscinetto tra Hamas e Israele, ma il problema è che i contorni del suo mandato sono talmente fluidi – e il rischio di entrare in conflitto con una delle parti talmente alto – che pochi Paesi vogliono avventurarsi in questa operazione.

Ad oggi, Turchia, Indonesia e Pakistan avevano espresso l’intenzione di inviare propri soldati, ma l’offerta della Turchia è stata declinata da Israele, che la considera troppo vicina ad Hamas e quest’ultimo ha dichiarato che considererà le truppe di tale forza di interposizione come “occupanti” e, dunque, come oggetto di legittimi attacchi. È chiaro che gli Usa faticano a trovare alleati – arabi, musulmani e non – che accettino la possibilità di un confronto militare diretto con Hamas, sacrificando proprie truppe in vista della stabilizzazione di Gaza.

Il nodo chiave rimane, infatti, la presenza di Hamas: senza una sua demilitarizzazione la ricostruzione non potrà avviarsi, perché nessuno stato vorrà investire ingenti somme di denaro su un terreno tanto incerto, in cui la guerra con Israele potrebbe riprendere in ogni momento. Dall’incontro di Doha del 16 dicembre, dove 45 Paesi si sono riuniti per discutere questo tema, sono trapelati pochi dettagli, ma 19 dei 70 paesi sollecitati dagli Usa si sono confermati disposti a fornire truppe o supporto logistico o attrezzature solo all’interno dell’area (il 53%) controllata da Israele.

Nel mondo reale – quello molto distante dall’orizzonte ideale in cui i due popoli dovrebbero riconoscersi un pari diritto alla terra e alla sicurezza e comportarsi da attori razionali -, le opzioni per avanzare verso la “fase due” restano molto limitate: una di queste, la più pragmatica, prevede che gli Usa facciano pressione su Israele affinché la Turchia svolga il “lavoro sporco” per la coalizione internazionale, invii proprie truppe nella parte della Striscia controllata da Hamas, si intesti il ruolo di smantellarne l’arsenale di lunga gittata senza confiscare le armi leggere, e faciliti il passaggio verso una stabilizzazione della Striscia in cui, progressivamente affiancata da altri Paesi e da forze di polizia palestinesi, i negoziati per un governo tecnico palestinese siano possibili e, con essi, l’avvio della ricostruzione.

Nel mondo reale, però, il governo Netanyahu farà di tutto per boicottare questo scenario, chiedendo in maniera massimalista che Hamas disarmi senza contropartite e senza un orizzonte politico chiaro verso un’autonomia palestinese. I Paesi arabi, e soprattutto quelli del Golfo, devono allora impiegare tutto il loro peso diplomatico e finanziario per fare leva sul presidente Trump per costringere Israele alla ragionevolezza e il presidente Usa potrà giocarsi in cambio l’asso della grazia presidenziale a Netanyahu.

Certo, si potrebbe operare tutta una serie di critiche e distinguo a questo piano – le principali delle quali è che non rispetta la volontà palestinese, che assegna un ruolo fondamentale ad una serie di attori non democratici come Egitto, Turchia, Qatar, Emirati Arabi e perfino all’Arabia Saudita e che finisce per premiare anche il responsabile della guerra (Netanyahu) – , ma tali analisi fanno parte di un mondo che ci siamo lasciati inesorabilmente alle spalle, quello del XX secolo regolato da una serie di norme internazionali ormai sistematicamente disattese e rispetto alle quali non ha più senso valutare le opzioni correnti.

L’alternativa peggiore per Gaza, sempre presente, resta la ripresa del genocidio senza che nessuno intervenga, ed è questo l’obiettivo minimo che tutti dovremmo cercare di evitare.