
L'intervista alla “Tata d’Italia”, il volto rassicurante di SOS Tata: ecco i suoi consigli
È stata la “Tata d’Italia”, il volto rassicurante di SOS Tata, il programma che per anni ha aiutato mamme e papà a ritrovare equilibrio e autorevolezza nel rapporto con i figli. Oggi Francesca Valla – educatrice, counselor e autrice – torna con un nuovo libro, Ogni figlio è un figlio unico (Cairo Editore), dove raccoglie […]
È stata la “Tata d’Italia”, il volto rassicurante di SOS Tata, il programma che per anni ha aiutato mamme e papà a ritrovare equilibrio e autorevolezza nel rapporto con i figli. Oggi Francesca Valla – educatrice, counselor e autrice – torna con un nuovo libro, Ogni figlio è un figlio unico (Cairo Editore), dove raccoglie trent’anni di esperienza educativa per raccontare come cambiano, e come possono evolvere, le relazioni familiari. Non è un manuale di regole ma un invito a riscoprire la propria autenticità di genitori: perché ogni bambino, spiega Valla, ha un ritmo e un modo di essere che meritano di essere accolti. E ogni madre e ogni padre, prima di educare, dovrebbero imparare a conoscersi.
“L’unicità è la chiave di tutto. I figli non sono il nostro prolungamento né la nostra proiezione sul mondo. Il compito dei genitori è imparare a vedere il figlio che abbiamo davanti, non quello che immaginiamo. È una sfida faticosa perché oggi viviamo sotto la pressione delle aspettative sociali e dei paragoni continui: con gli altri genitori, con i modelli ideali, con ciò che si pensa sia giusto fare.
Ascoltare un figlio in modo autentico è forse l’atto educativo più difficile. Significa accogliere le sue emozioni e i suoi pensieri, anche quando sono diversi dai nostri, sospendendo il giudizio. Il giudizio soffoca il dialogo: un figlio che si sente criticato smette di raccontarsi. L’ascolto attivo invece apre, crea fiducia, costruisce legami profondi”.
Lei parla spesso del “no che fa crescere”. In che modo un limite ben spiegato diventa una forma di amore e non di controllo?
“Un ragazzo che non riceve mai un ‘no’ è un ragazzo disorientato. Il limite non è una forma di potere, ma un atto d’amore che orienta. Il periodo più delicato è l’adolescenza, quando i figli sentono il bisogno di opporsi ai genitori per affermare la propria identità. È lì che il ‘no’ diventa più difficile, perché abbiamo paura di perdere il loro affetto o di innescare conflitti.
Eppure dire ‘no’ in modo misurato e motivato è fondamentale. Il limite non deve essere mai punitivo o sfidante, ma un’occasione di dialogo: “Ti dico no perché ti voglio bene, perché ti sto aiutando a crescere”. Accettare una piccola frustrazione insegna ai figli a muoversi nel mondo reale, dove non tutto è possibile e dove il rispetto dell’altro nasce anche dall’accettazione dei confini.
Un bambino che sperimenta il valore del limite diventa un adulto più equilibrato, capace di reggere anche i rifiuti della vita: un ‘no’ a scuola, un fallimento professionale, o un rifiuto in una relazione sentimentale. I ‘no’ educativi non proteggono solo dal rischio di sentirsi onnipotenti, ma costruiscono le basi dell’autostima: quella che non crolla davanti a una delusione, perché ha imparato che l’amore non coincide con l’assenza di limiti, ma con la presenza di confini chiari e affettuosi. Dire ‘no’ non significa chiudere, ma aprire alla consapevolezza. E insegnare che anche dentro un rifiuto può esserci un segno d’amore”.
Nel libro lei presenta un metodo che è anche un acronimo: Fare Luce. In pratica, un invito ai genitori a capire meglio se stessi prima di correggere i figli. Quali sono le aree più difficili su cui un genitore deve lavorare per evitare di trasmettere ansie o schemi del passato?
“Ogni genitore dovrebbe, prima di tutto, tornare a chiedersi che figlio è stato. Perché inevitabilmente replichiamo ciò che abbiamo vissuto. Le parole, i gesti, le emozioni dei nostri genitori fanno eco dentro di noi e spesso diventano il nostro linguaggio educativo.
‘Fare LUCE’ è un acronimo che nel libro diventa un metodo: significa portare consapevolezza sui propri automatismi, capire quali ferite del passato rischiamo di riattivare, ma anche quali esperienze positive possiamo tramandare. A volte basta un piccolo esercizio: pensare a qualcosa della nostra infanzia che ci ha ferito e qualcosa che invece ci ha fatto stare bene. Lavorare su entrambe. Se, per esempio, da bambini abbiamo vissuto urla o punizioni, proviamo a non replicarle. Se abbiamo amato la lettura della buonanotte, riproponiamola: quei momenti diventano rituali affettivi preziosi. E ricordiamoci che il genitore perfetto non esiste. Esiste il genitore consapevole, che sa riconoscere i propri limiti e ne fa una risorsa”.
Oggi i social e la velocità quotidiana hanno cambiato il modo di stare in famiglia. Come possono i genitori recuperare tempi e spazi di relazione autentici?
“Il digitale non è il problema, lo è l’uso che ne facciamo. Spesso i genitori si lamentano dei figli ‘sempre con il telefono in mano’, ma dovrebbero chiedersi prima quanto tempo passano loro stessi con lo sguardo sullo schermo. Siamo noi i primi modelli. Nel libro propongo di definire un ‘patto educativo digitale’ condiviso in famiglia: stabilire insieme tempi e modi dell’uso dei device e creare routine di disconnessione. Una sera alla settimana può bastare per cominciare: una lettura collettiva, una cena senza telefoni, un gioco insieme. La disconnessione tecnologica diventa una connessione emotiva. Viviamo in un eterno presente che ci fa correre senza fermarci mai. Ma i figli, prima o poi, ci costringono a fermarci. È in quelle ‘soste brusche’ che riscopriamo il bisogno di relazione, e che possiamo davvero mettere la gentilezza al centro della vita familiare”.
A proposito di gentilezza, lei parla di “fermezza gentile” e di errori che si possono riparare. Quanto è importante che un figlio veda anche la vulnerabilità del genitore?
“La vulnerabilità non toglie autorevolezza, la rafforza. Un figlio che vede un genitore capace di riconoscere i propri errori impara che l’imperfezione è parte della vita. È un messaggio potentissimo. Mostrarsi fragili, dire ‘oggi non ce l’ho fatta’, chiedere scusa: sono gesti che costruiscono fiducia e autenticità. Gli errori, i fallimenti, gli inciampi non sono solo occasioni di apprendimento, ma momenti in cui mettiamo in moto la creatività, la capacità di trovare strade alternative. Di fatto, la ‘fermezza gentile’ significa questo: accompagnare, non comandare. Stabilire confini con empatia, guidare senza invadere. E dimostrare a un figlio che non cresce solo lui, ma che si cresce insieme”.