
Il report dell'Osservatorio Step analizza la narrazione mediatica del femminicidio in Italia: progressi, ma persistono stereotipi
Come è cambiata la narrazione della cronaca nei casi di femminicidio? Dopo anni di sensibilizzazione e formazione da parte delle attiviste dei Centri antiviolenza e di GiULIA, i giornalisti e le giornaliste hanno acquisito maggiori competenze e letture più aderenti alla realtà del fenomeno ma ancora persistono distorsioni, pregiudizi o stereotipi.
E’ stato presentato recentemente il nuovo report dell’Osservatorio Step, curato da Flaminia Saccà. Un precedente report Step che analizzava 16.715 articoli negli anni 2017, 2018 e 2019 aveva rilevato “una rappresentazione distorta, permeata da pregiudizi tendenti a vittimizzare le donne e ad attenuare le responsabilità dei colpevoli”. Ora il progetto ha prodotto una nuova ricerca con l’analisi di 2350 articoli pubblicati su 26 testate.
Se si confrontano i dati del Ministero degli Interni sui crimini contro le donne e si fa una comparazione col numero degli articoli che sono stati analizzati, emerge una discrepanza: le denunce per maltrattamenti familiari rappresentano il 51,7% delle denunce eppure gli articoli che trattano di violenza domestica sono solamente il 16% degli articoli. Accade il contrario con le uccisioni delle donne che rappresentano lo 0,3% dei crimini ma che sono stati raccontati nel 33% degli articoli. C’è una maggiore narrazione sulla violenza sessuale rispetto alle denunce (18% contro il 13,7%) e minore rispetto allo stalking (34,3% degli atti persecutori commessi, contro un 7% degli articoli analizzati che ne parlano).
Si scrive ancora poco e male di violenza domestica, spesso raccontata come conflitto o lite, senza che siano considerate le disparità di potere e le asimmetrie che sono alla base della violenza domestica. Anche se si scrive meno di raptus, la descrizione della violenza è ancora presente come perdita improvvisa di controllo del maltrattante (34% degli articoli analizzati) così come persiste l’himpaty, la narrazione empatica nei confronti dell’autore di violenza.
I media, riporta la ricerca Step, continuano ad attenuare la responsabilità maschile attraverso strategie narrative tese ad individuare il dolore dell’uomo come possibile chiave interpretativa del femminicidio. È il trionfo dei frame che esonerano da responsabilità: “era fragile”, “era disperato”, “non dormiva”, “l’amava troppo”. E’ evidente che tale narrazione distorce i fatti ed evita di focalizzare l’attenzione sulla storia e le dinamiche che hanno portato al femminicidio, ponendo l’attenzione solo nei momenti che precedono il compimento del crimine.
Il risultato è una rappresentazione che sposta lo sguardo dalla violenza alla sofferenza dell’uomo che l’ha commessa. Si tratta di una suggestione che attenua le responsabilità degli autori di violenza. La ricerca rileva anche l’alternanza di himpaty e mostrificazione dell’autore di violenza. La rappresentazione del femminicida cambia a seconda dell’età delle vittime. Nei casi che riguardano donne anziane, disabili o malate, la violenza viene presentata come conseguenza della patologia della vittima, trasformando il femminicidio in un gesto altruistico, una sorta di epilogo pietoso di una storia di sofferenza condivisa.
L’uomo “non regge”, “non sopporta più”, “è stremato dalla malattia della moglie” mentre la donna viene ridotta alla sua condizione clinica e scompare come persona: non ha voce, identità e resta sullo sfondo della narrazione come problema, contesto, peso se non come origine della sofferenza del partner.
Questa narrazione non è affatto oggettiva perché dà un senso al gesto dell’uomo, lo rende comprensibile e quasi inevitabile. È un dispositivo culturale che protegge il colpevole e cancella la vittima.
Invece, nei casi che coinvolgono bambine e giovanissime vittime di padri o patrigni, la rappresentazione tende a essere più dura nel giudizio, più esplicita, meno ambigua. L’offender è definito come tale e la violenza è chiamata con il suo nome. Il racconto non indulge in attenuanti psicologiche ma avviene una deumanizzazione dell’autore di violenze descritto come “orco” o “mostro”.
La risposta è amara ma evidente: le giovanissime non possono essere accusate di nulla. Non possono “aver fatto arrabbiare”, “essere state ambigue”, “aver rifiutato un abbraccio”, “aver voluto lasciare” il loro aggressore o essere “un peso”. Le bambine hanno il diritto di essere protette e curate, le anziane no.
Un altro dato, forse il più inquietante dal punto di vista mediatico rilevato nella ricerca, è che il 76% degli articoli che danno voce all’offender riporta direttamente la sua versione dei fatti (“mi faceva dormire sul tappeto”, “mi aveva detto che si era iscritta ad un sito di appuntamenti”). La vittima è stata uccisa e ovviamente non ha più possibilità di parola ma la sua testimonianza indiretta viene riportata da terzi solo nel 58% dei casi.
Questo squilibrio non è un solo dettaglio statistico: significa che l’informazione continua a costruire il racconto dal punto di vista dell’uomo che ha agito violenza, mentre la donna resta sullo sfondo, evocata, ricostruita, interpretata.
Il caso Montefusco, citato nel report, è emblematico. La giustificazione del “blackout emozionale” – una categoria inesistente nei manuali di psicologia e negata dagli psichiatri – è il simbolo perfetto di un modo di raccontare e giudicare la violenza che cerca l’eccezione per non riconoscere la regola.
Se ogni uomo che uccide è fragile, innamorato, disperato, affaticato, instabile, allora la responsabilità individuale svanisce. E resta un’unica conseguenza culturale possibile: la violenza diventa un fatto spiegabile, comprensibile, quasi normale.
In conclusione, la situazione va in lento miglioramento ma c’è molto da fare. La scelta di dare voce all’offender, di cercare attenuanti emotive, di trasformare un femminicidio in un “dramma della disperazione” continua a resistere nella cronaca nera o giudiziaria influenzando la percezione del disvalore dei crimini contro le donne.
Se da una parte il femminicidio viene raccontato come un dramma legato alla sofferenza o all’amore, e dall’altra come atto mostruoso e circoscrivibile ad eccezioni mostruose o a devianza, viene meno la lettura della violenza maschile contro le donne come fenomeno sociale e strutturale. Persiste una rimozione della violenza nelle sue molteplici manifestazioni.
Finché continueremo a raccontare la violenza maschile attraverso lo sguardo di chi la esercita, non potremo mai combatterla davvero.