
Slitta di un anno il voto sul piano dell’Organizzazione marittima internazionale per la decarbonizzazione del settore. Ostacolato soprattutto da Stati Uniti e Arabia Saudita
Dalle pressioni alle minacce di ritorsioni. Gli Stati Uniti di Donald Trump hanno dato la loro ennesima prova di forza e, alla fine, sono riusciti a far rinviare di (almeno) un anno l’adozione del piano per decarbonizzare il settore del trasporto marittimo che prevede un nuovo sistema di tassazione per le navi. Sarebbe stata la prima forma di tassazione mondiale sulle emissioni di carbonio imposta nel settore della navigazione. Il Net-Zero Framework dell’Organizzazione marittima internazionale (Imo) delle Nazioni Unite, infatti, era stato approvato in via provvisoria ad aprile scorso, con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 20-30% entro il 2020 e arrivare a zero emissioni nette al 2050. Un accordo storico, anche se al ribasso. Avrebbe dovuto essere adottato nell’ultimo giorno della seconda sessione straordinaria del Comitato per la protezione dell’ambiente marino, che si è tenuta dal 14 al 17 ottobre a Londra. Anche in vista della prossima conferenza sul clima, la Cop 30 che si terrà tra un mese in Brasile. Ma si è arrivati alla riunione decisiva dopo mesi di pressioni e con Washington che ha minacciato i Paesi che avessero sostenuto l’adozione di tasse portuali e restrizioni sui visti. Nelle ultime settimane la tensione è salita alle stelle, con in prima fila – contro l’adozione – Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Singapore e altri paesi produttori di petrolio. Alla fine 57 Paesi hanno votato a favore del rinvio, 49 sono stati contrari e 21 si sono astenuti. Un rinvio che per l’Europa, da sempre favorevole, sa di sconfitta. “Questa è un’altra grande vittoria per il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump” ha commentato il segretario di Stato Usa, Marco Rubio.
Dieci anni di negoziato per un accordo preliminare di compromesso (ora rinviato) – D’altronde il negoziato è andato avanti per circa dieci anni ed ora i paesi contrari alla tassa avranno ancora più tempo di esercitare pressioni, mentre si lasciano nel limbo gli operatori del settore che si stavano organizzando. Perché già nel 2023, l’Imo ha concordato la necessità di adottare misure economiche, come la fissazione del prezzo del carbonio e tecniche, come il Global Fuels Standard (Leggi l’approfondimento). Ad oggi, il trasporto di merci via mare rappresenta circa il 3 per cento delle emissioni globali di gas serra, ma secondo diversi studi entro metà secolo potrebbero arrivare al 10 per cento. L’accordo sulla decarbonizzazione del settore era stato trovato ad aprile 2025 e approvato al termine dei negoziati del Comitato per la protezione dell’ambiente marino (MEPC 83) dell’Imo. Una volta adottato in modo definitivo, farà parte della Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento da navi (Marpol). Ad aprile, 63 Paesi avevano votato a favore, 16 contro e 25 si erano astenuti. Per quanto fosse stato un passo storico, il risultato è piuttosto lontano dall’imposta sul carbonio in cui speravano i paesi poveri e più esposti agli effetti dei cambiamenti climatici. Una coalizione di Paesi del Pacifico, dei Caraibi, dell’America Centrale e dell’Africa aveva spinto per una copertura totale delle emissioni, per esempio attraverso un prelievo universale sul carbonio, con una distribuzione delle entrate all’interno e all’esterno del settore, anche per l’adattamento e la mitigazione. Ma Cina, Brasile, Arabia Saudita e altri Stati petroliferi si erano opposti.
Il sistema che fa paura a Trump e ai Petro-Stati – A distanza di qualche mese, è stata l’Arabia Saudita la prima a proporre un rinvio, ma cruciali sono state le trattative condotte dagli Stati Uniti per far fallire il piano. L’accordo introduceva, a partire dal 2028, obiettivi di riduzione delle emissioni per le navi di stazza superiore a 5mila tonnellate, con un’imposta che varia a seconda che si superi l’obiettivo ‘di base’ rispetto all’intensità di carbonio (più facile da rispettare) o quello più stringente ‘di conformità diretta’. Chi non rispetta gli obiettivi potrà pagare acquistando Unità Correttive (Remedial Units, RU). Le navi, invece, che rispettano i target di decarbonizzazione potranno generare Unità in Eccesso (Surplus Units, SU), da utilizzare in futuro o vendere ad altre navi. Insomma, un sistema di scambio di crediti a tutti gli effetti con incentivi a favore delle navi che si affidano a carburanti ritenuti meno inquinanti. Un sistema non privo di rischi. Secondo Umas, società di consulenza specializzata nel trasporto marittimo commerciale, per esempio, questo accordo raggiungerà solo l’8% di riduzione assoluta delle emissioni entro il 2030 e non gli obiettivi fissati dall’Imo nella Strategia rivista nel 2023 (riduzione delle emissioni di almeno il 20%, con l’obiettivo di raggiungere il 30% entro il 2030, e una transizione equa verso lo zero netto entro/intorno al 2050). Tra i punti più controversi un contesto regolatorio favorevole per l’adozione di carburanti alternativi per il trasporto marittimo – aveva sottolineato l’ong Transport & Environment – con il rischio di dare maggior impulso nel prossimo decennio ai biocarburanti di prima generazione (come l’olio di palma o di soia), che causano la deforestazione. Si prevede, inoltre, che il sistema raccolga fra i 30 e i 40 miliardi di dollari entro il 2030 (10 miliardi di dollari all’anno), mentre i paesi poveri speravano che l’imposta avrebbe portato circa 60 miliardi di dollari all’anno.
Nello scontro vince Trump e perde l’Europa – Nonostante si andasse verso un accordo non particolarmente ambizioso, gli Stati Uniti hanno interrotto i negoziati, dichiarando apertamente che il presidente Usa, Donald Trump, era da sempre e rimaneva contro l’imposta sulle emissioni. Da aprile a ottobre, però, è accaduto di tutto. Le pressioni di Washington, che ha minacciato ritorsioni a suon di tasse portuali e restrizioni sui visti contro i Paesi favorevoli all’adozione. I funzionari di alcuni dei 176 Paesi membri dell’Imo sarebbero stati contattati dai ‘colleghi’ del Dipartimento di Stato Usa che avrebbero continuato a fare pressioni. Il 10 ottobre, poi, c’è stata la dichiarazione del segretario di Stato Usa, Marco Rubio, del segretario all’Energia, Chris Wright e di quello ai Trasporti, Sean Duffy nella quale si parla in modo esplicito di “azioni contro le nazioni che sostengono questa tassa globale sul carbonio”. E cioè, “restrizioni sui visti”, “sanzioni commerciali”, “tasse portuali aggiuntive sulle navi di proprietà, gestite o segnalate da paesi che sostengono il quadro” e persino di “sanzioni ai funzionari che sponsorizzano politiche climatiche guidate dagli attivisti che appesantirebbero i consumatori americani”. Ma gli Usa hanno anche provato a far modificare le regole procedurali e rendere così più difficile l’adozione del piano, passando dall’accettazione tacita oggi prevista (entrata in vigore 10 mesi dopo il voto, a mano che non si opponga un certo numero di Paesi) a quella esplicita (dopo il voto, almeno due terzi dei Paesi devono scrivere all’Imo per confermare l’accettazione). La proposta è stata bocciata, ma che ha creato terreno fertile per posizioni ambigue. A poco è valsa la spinta della Commissione Europea, che ha chiesto all’Imo di arrivare all’adozione del regolamento. Eppure non era sola l’Unione Europea. Anche Regno Unito, Danimarca, Canada, Australia, Giappone e Cina si sono sempre detti favorevoli alla misura. Emblematico il commento di Arsenio Dominguez, segretario generale dell’Imo: “È arrivato il momento di guardarci davvero alle spalle e capire come abbiamo affrontato questo incontro”.