
Il sostegno alla causa palestinese non si misura nella forza con cui si colpisce un edificio, ma nella forza delle argomentazioni, nella chiarezza morale
di Lucio Aquilina
A Milano, durante una manifestazione a sostegno del popolo di Gaza e contro il genocidio in corso, alcuni partecipanti hanno distrutto l’ingresso della Stazione Centrale. Un episodio grave, che rischia di oscurare il senso profondo delle mobilitazioni e di delegittimare agli occhi dell’opinione pubblica un movimento che, invece, ha radici autentiche e giuste: la richiesta di fermare la violenza, di proteggere i civili, di ridare centralità alla pace.
Non è la prima volta che la rabbia e la frustrazione, alimentate dalle immagini quotidiane di morte e distruzione, si trasformano in gesti autolesionistici. Ma occorre dirlo con chiarezza: azioni di questo tipo finiscono per spostare il dibattito dal massacro di Gaza ai vetri rotti di una stazione italiana. Invece di concentrare l’attenzione sulla tragedia umanitaria, costringono i media e le istituzioni a parlare di ordine pubblico e sicurezza, fornendo alle destre argomenti facili per bollare l’intero movimento come violento ed estremista.
Eppure, altrove, il volto delle mobilitazioni è stato ben diverso. A Napoli la manifestazione era piena di bambini, donne, studenti e anche anziani: un vero universo sociale che si è ritrovato insieme per dire basta al sangue, senza paura e senza odio. Un universo che deve poter partecipare senza rischiare, senza sentirsi esposto a scenari di violenza. Lì, come in tante altre città italiane ed europee, si è dimostrato che il sostegno a Gaza può essere inclusivo, popolare, capace di dare voce a chi normalmente non ha spazio nelle cronache.
È proprio questo il terreno su cui il movimento deve insistere. Il movimento internazionale di solidarietà ai palestinesi, che in Italia ha raccolto migliaia di persone in cortei pacifici e iniziative culturali, ha bisogno di credibilità politica, di capacità di parlare alla società civile, di costruire ponti con sindacati, associazioni, università, artisti. Ha bisogno di conquistare terreno nell’opinione pubblica, mostrando che dietro gli slogan ci sono valori di giustizia, dignità, diritti umani universali.
Il sostegno alla causa palestinese non si misura nella forza con cui si colpisce un edificio, ma nella forza delle argomentazioni, nella chiarezza morale, nella capacità di mobilitare coscienze. Ogni danno materiale prodotto nelle nostre città diventa un alibi per chi vuole chiudere gli occhi sul disastro in Medio Oriente. Ogni gesto di violenza qui diventa un pretesto per ignorare la violenza ben più devastante che si consuma lì.
Questo non significa invocare la passività o chiedere un movimento addomesticato. Al contrario: servono coraggio, radicalità, capacità di rompere il silenzio e l’indifferenza. Ma la radicalità oggi non si misura nella distruzione, bensì nella fermezza con cui si pretende un cessate il fuoco, un embargo sulle armi, un impegno politico dell’Europa e dell’Italia per una soluzione giusta e duratura. La vera radicalità è non smettere di raccontare la verità delle vittime, di denunciare l’unilateralismo delle cancellerie occidentali, di smascherare le complicità economiche e militari.
Per questo, il gesto compiuto a Milano non è solo un errore tattico: è un tradimento della causa stessa che si vuole difendere. La solidarietà con Gaza deve essere costruzione di coscienza, non distruzione di spazi pubblici. Deve unire, non dividere. Deve avere la forza della dignità, non la debolezza della furia.
La rabbia, comprensibile, va trasformata in azione politica efficace. È questa la sfida. Perché la causa di Gaza è troppo grande e troppo giusta per essere sacrificata al piacere di infrangere una vetrina.