
Queste realtà, seppur piccole, dimostrano che è possibile costruire un’agricoltura basata su partecipazione, biodiversità e sostenibilità
di Antonella Galetta
Oggi, gran parte del mercato delle sementi agricole è dominato da poche multinazionali (tra cui Bayer, Syngenta, Chem China), che controllano oltre il 60% dei semi e il 75% degli agrofarmaci. Questo monopolio impone agli agricoltori l’acquisto non solo dei semi, ma anche dei pesticidi e dei prodotti chimici necessari, riducendo la biodiversità e mettendo a rischio la salute del pianeta e la libertà di scelta dei consumatori.
Un tempo i semi venivano selezionati in modo naturale, coltivati in condizioni ottimali e scambiati liberamente. Oggi, invece, le sementi disponibili sul mercato provengono da processi industriali che li rendono dipendenti da chimica e irrigazione. Il risultato è che gli agricoltori perdono autonomia, mentre si diffonde un modello agricolo monoculturale e standardizzato.
In risposta a questo scenario, in Italia nascono esperienze di resistenza e recupero dei semi antichi. In Trentino, a San Tomaso Agordino (BL), il progetto Orti rupestri mira a conservare varietà tradizionali grazie alla collaborazione tra amministrazione e comunità. In Piemonte, a Monastero Bormida (AT), il Mulino dei semi è diventato luogo di condivisione e scambio, volto a contrastare la perdita di biodiversità e a offrire opportunità lavorative ai giovani.
Esperienze simili si trovano a Roma con l’azienda agricola collettiva Semi di comunità, che coinvolge oltre 400 famiglie nella coltivazione senza chimica e nello scambio dei semi. Anche in Abruzzo e Molise si recuperano varietà tradizionali come la Solina, mentre in Calabria cooperative come Macramè coltivano su terreni confiscati alla ’ndrangheta, riportando in vita colture storiche.
Queste realtà, seppur piccole, dimostrano che è possibile costruire un’agricoltura basata su partecipazione, biodiversità e sostenibilità, opponendosi a un sistema dominato da logiche industriali e speculative.