Chissà se hanno una qualche consistenza le minacce di Trump contro la Russia perché il presidente è “incazzato” con Putin per l’atteggiamento tenuto nei negoziato per la fine delle ostilità in Ucraina. Il presidente statunitense ha detto che avrebbe preso in considerazione l’imposizione di tariffe secondarie, fino al 50%, sugli importatori di petrolio russo. Se mai queste misure entrassero in vigore sarebbero un vero e proprio terremoto per il mercato petrolifero mondiale. Si tratterebbe, in sostanza, di tagliare fuori uno dei primi tre produttori ed esportatori al mondo (insieme a Usa ed Arabia Saudita) provocando, inevitabilmente, un rialzo dei prezzi.
Le sanzioni secondarie significano infatti che chiunque acquistasse petrolio dalla Russia (cosa che nessuno ha mai smesso completamente di fare in questi anni di guerra) dovrebbe subire dazi su tutto ciò che esporta negli Usa (probabilmente, ma non è chiaro, oltre a quelli già annunciati). Nel 2024 Mosca ha prodotto 9,3 milioni di barili al giorno (poco meno di un decimo dei consumi globali), esportandone circa la metà. È dal petrolio, più che dal gas, che la Russia ottiene i maggiori introiti: 190 miliardi di dollari contro 50 miliardi nel 2019, l’ultimo anno “normale”.
Tagliare fuori dal mercato questa significherebbe mettere fortissima pressione sul mercato. La capacità di produzione aggiuntiva massima dell’Opec è stimata in 5,3 milioni di barili al giorno. Appena sufficienti per compensare il mancato export russo. Naturalmente a meno che, di nuovo, una quantità più o meno consistente di petrolio non continui a fluire con navi appartenenti a flotte ombra, ovvero che dissimulano la loro provenienza dalla Russia con registrazioni compiacenti in paesi terzi, solitamente mediorientali.
