Economia

Povertà, il governo prova a giustificarsi dopo i dati Istat: “È aumentata poco e soprattutto tra gli stranieri”. Silenzio sui lavoratori indigenti

C’è voluto un giorno e mezzo a Palazzo Chigi per partorire un commento ai dati sulla povertà assoluta nel 2023 diffusi lunedì mattina dall’Istat, che hanno scatenato gli attacchi delle opposizioni e provocato le reazioni preoccupate di sindacati e associazioni. Il contenuto della velina inviata alle agenzie di stampa è uno spericolato esercizio di minimizzazione mirato a dimostrare che “le politiche redistributive e di sostegno attuate dal governo hanno dato i loro frutti”. In breve, le fonti della presidenza del Consiglio ammettono che l’aumento dei poveri in effetti c’è stato ma “molto contenuto“. E aggiungono, se non bastasse, che “ha riguardato prevalentemente famiglie straniere“. Sottinteso: non sono italiani, è meno grave. Nemmeno una parola sul dato più preoccupante che emerge dalle stime preliminari dell’istituto di statistica, cioè l’esplosione dell’indigenza tra le famiglie in cui la persona di riferimento è un lavoratore dipendente evidentemente sottopagato.

Il tentativo di correre ai ripari arriva dopo che la premier aveva reagito a caldo limitandosi ad affermare che la povertà “non si abolisce per decreto”. La nota informale parte da un interessato confronto con l’anno precedente, quando l’incremento della povertà assoluta è stato dello 0,6% contro il +0,2% stimato per il 2023. Chigi cita il precedente per tentare di dimostrare che l’esecutivo Meloni, insediato a fine ottobre 2022, ha ereditato una situazione difficile ma ha poi varato misure capaci di “mitigare l’effetto dell’inflazione sulla capacità di spesa degli italiani” e “mantenere sostanzialmente stabile il dato sulla povertà”. Nel 2022 i prezzi sono però cresciuti dell‘8,1% contro il +5,7% del 2023, il che è sufficiente a spiegare il differente impatto sulla capacità delle famiglie di acquistare un paniere di beni e servizi necessario per una vita accettabile. Segue la rivendicazione di un “altro dato interessante”, quello sull’intensità della povertà, che misura di quanto la spesa media delle famiglie povere è al di sotto della soglia di povertà: nel 2023 è rimasta invariata e tanto basta.

Le “fonti di Chigi” tacciono, invece, sul dilagare dei working poor, i lavoratori che nonostante possano contare su uno stipendio non arrivano a fine mese. L’istituto di statistica ha segnalato un netto peggioramento della condizione delle famiglie guidate da un dipendente: nel 2023 era finito in povertà il 9,1% di quei nuclei, contro l’8,3% del 2022. Dati poco compatibili sulla narrazione cara al governo, secondo cui quel che conta sono i buoni dati sull’occupazione e non c’è bisogno di un salario minimo legale perché la contrattazione collettiva è più che sufficiente per garantire salari dignitosi. E poco importa se 5,7 milioni di dipendenti portano a casa meno di 850 euro netti al mese. Silenzio pure sugli 1,3 milioni di minorenni poveri assoluti. La velina preferisce puntare sulla nazionalità delle famiglie precipitate in povertà, sottolineando come siano “prevalentemente straniere” (l’incidenza della povertà per loro è superiore di quasi sei volte rispetto a quella dei nuclei composti da soli italiani): passaggio che pare strizzare l’occhio a un elettorato disposto a ritenere più accettabile l’indigenza di chi arriva dall’estero.

Ciliegina sulla torta, il governo rispolvera un report dell’Istat di due settimane fa sulla redistribuzione del reddito nel 2023 per ricordare che “il rischio di povertà si è ridotto”. Ma una lettura attenta di quel documento rivela che il merito va cercato in due misure introdotte da Draghi, l’assegno unico e universale per i figli a carico (che Meloni ha poi adeguato al costo della vita e aumentato per i nuclei più numerosi e per quelli con figli sotto l’anno di età) e la decontribuzione per i lavoratori dipendenti con redditi bassi, che è stata potenziata. L’avvio dei tagli al reddito di cittadinanza, la cui erogazione lo scorso anno è stata ridotta a sette mesi per i presunti “occupabili”, e la sua sostituzione con il Supporto per la formazione e il lavoro da soli 350 euro al mese hanno invece aumentato di 0,2 punti l’indice di Gini che misura la disuguaglianza. L’impatto sulla povertà ancora non si vede solo perché l’abolizione vera e propria del rdc è stata attuata in maniera compiuta solo quest’anno, con l’entrata in vigore dell’Assegno di inclusione che come evidenziato da Bankitalia esclude una parte importante della platea prima raggiunta dall’aiuto pubblico. Gli esperti prevedono che il numero degli indigenti aumenterà addirittura di 1 milione.