Società

Aumento dei prezzi: l’inflazione incide più di quanto vogliano farci pensare

di Cristian Palusci

Qualche giorno fa, sul canale americano Msnbc è stata proposta un’interessante comparazione sullo scontrino della spesa di Kevin di “Mamma ho perso l’aereo”, confrontando i prezzi del 1990 con quelli odierni: il risultato è stato di un aumento del 177% su una spesa a base di generi alimentari e forniture per la casa.

Il successivo elemento di considerazione è stato il confronto con gli indici dei prezzi al consumo degli Stati Uniti relativi ai beni alimentari e alle forniture domestiche, che nello stesso lasso di tempo sono aumentati rispettivamente del 151% e dell’88%.

Ennesima dimostrazione di come i panieri che compongono gli indici per il calcolo dell’inflazione tendano sempre a sottostimare gli aumenti effettivi dei prezzi, a fronte di un’inflazione che incide in misura più significativa di quanto vogliano farci pensare.

D’altronde è cosa nota che gli istituti di statistica che compongono i panieri per il calcolo degli indici dei prezzi, spesso grazie al “gioco delle tre carte”, riescono a edulcorare i dati per puntellare le narrazioni dei rispettivi governi.

E non voglio neanche considerare il fenomeno della shrinkflation (in italiano riporzionamento), neologismo che deriva dalla crasi delle parole shrink (“restringere”) e inflation (“inflazione”), che consiste nell’odiosa pratica commerciale di ridurre le quantità o le porzioni di un prodotto mantenendo lo stesso prezzo o, in alcuni casi, addirittura aumentandolo.

Diciamo la verità, quanti hanno dato peso al fatto che negli anni all’interno del pacchetto di fazzoletti di carta il numero delle salviette sia passato da 10 a 9 (e in qualche caso anche a 8)? O che la porzione di frutta secca sia scesa da 125 a 100 grammi?

E anche se i rincari dei generi alimentari e dei carburanti sono quelli che creano più clamore, proprio perché le persone si confrontano quotidianamente con essi, non sono loro ad aver inciso in maniera più drammatica sul depauperamento della classe media. Infatti i costi che negli ultimi decenni hanno esercitato la pressione più soffocante sulle persone vanno ricercati tra gli aumenti esorbitanti nel settore immobiliare, nell’assistenza sanitaria e in un settore chiave per una società civile come l’istruzione.

E consideriamo che in Italia l’assistenza medica è garantita dalla Costituzione grazie al Sistema Sanitario Nazionale Universale e dunque dovrebbe essere gratuita; peccato però che la sanità pubblica venga scientemente smantellata da anni per favorire il settore privato, vera gallina dalle uova d’oro del clientelismo italico, e che dunque molte persone debbano rivolgersi a strutture private nonostante i contributi previdenziali versati.

Di questo si dovrebbe parlare a reti ed edicole unificate, da mane a sera.

Invece siamo costantemente obnubilati dalle classiche “armi di distrazione di massa”, a base di gossip e amenità assortite. Adesso è il turno di Chiara Ferragni tra lo stupore e l’indignazione generale: naturalmente fa più comodo parlare della Ferragni di turno piuttosto che dover spiegare alle persone per quale motivo negli ultimi anni la classe media sia stata lasciata al macello, o perché dopo la parentesi del Covid stiamo tornando mestamente alla famigerata austerity europea, senza programmare uno straccio di politica economica o di patto sociale per mitigare il fenomeno dell’inflazione e dell’impoverimento inesorabile della classe media.

Tutto va bene Madama la Marchesa, di pandoro natalizio in uovo di Pasqua.

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