Diritti

Femminicidio Cecchettin, le parole scorrette che i giornali hanno usato per raccontarlo

In centocinque sono morte nel 2023 in gran parte per mano di un uomo, cinquecentosettantasei negli ultimi cinque anni, e ancora non abbiamo imparato a parlare correttamente dei casi di femminicidio. Di qualsiasi studente che compie lo stesso errore centinaia di volte si possono dire tre cose: che non ha gli strumenti per comprendere perché e dove sbaglia, che con il suo atteggiamento ha voglia di prendere in giro la sua insegnante o che, banalmente, non sta prestando attenzione. Tra queste tre opzioni si giostrano i miei pensieri tutte le volte che leggo titoli, articoli, editoriali e interviste sulla violenza contro le donne in cui vengono usate parole e immagini scorrette e a loro volta violente.

Mi rendo conto che accanto alla gravità dei casi di cronaca questa può sembrare una piccolezza, eppure sono convinta che attraverso le parole concepiamo e plasmiamo la realtà e che dunque sia nostro compito raccontare la violenza con rispetto, precisione e cura. Purtroppo, invece, il manifesto dei giornalisti e delle giornaliste per il rispetto e la parità di genere nell’informazione giace inesplorato nella cartella download di un pc in qualche redazione.

Il 18 novembre Il Corriere scrive che il corpo ritrovato nel Lago di Barcis è quello di Giulia Cecchettin e poi li chiama “i ragazzi scomparsi”. Solo che Giulia Cecchettin non è scomparsa, è stata sequestrata e uccisa dal suo ex, Filippo Turetta, che pure non è scomparso, ma si è nascosto dopo aver pianificato giorni e giorni di sopravvivenza. Siamo sicuri che sia legittimo metterli sullo stesso piano e neutralizzare tutte le differenze tra vittima e carnefice definendoli “ragazzi scomparsi”?

Il giorno dopo, sullo stesso argomento, Repubblica apre così: “quell’amore cattivo è finito per sempre, ora lo sappiamo. In un posto da innamorati, con il foliage da fotografare, il lago, le montagne, un posto sperduto e magico”. Ancora lo chiamiamo amore? Le foglie, il paesaggio, la magia… sembra una recensione su TripAdvisor, manca solo il consiglio gastronomico nelle vicinanze. Una ragazza di 22 anni è stata uccisa e si continua a romanticizzare la violenza.

Così fa anche Messaggero Veneto, nel titolo, definendo Filippo Turetta “buono e premuroso, ma anche possessivo e geloso“. Ecco qui la scusa della doppia personalità che tanto piace a chi si concentra solo sulla responsabilità personale nei singoli episodi di femminicidio e mai sulla piaga sociale, sul sistema malato che ogni giorno mortifica, oggettifica e abusa. Accostare all’assassino aggettivi positivi dipinge un quadro fuorviante e parziale della realtà: le faceva i biscotti, quindi doveva essere dolce con lei, per forza, zuccheroso per osmosi. Era possessivo, certo, però anche premuroso. Il punto è questo: non è importante. L’articolo sulla morte di una ragazza non è lo spazio per raccontare carattere e hobby del suo assassino. Non l’ha capito nemmeno HuffPost che ci propina un approfondimento sulla vita di Turetta, titolando “riservato, timido e con la passione per il volley”… informazioni fondamentali per comprendere le dinamiche dell’accaduto e di cui proprio non si poteva fare a meno.

Esattamente come, mi pare di aver capito in questi giorni, non si può fare a meno di conoscere ogni minuscolo dettaglio sulle crudeltà commesse da Turetta contro Cecchettin. Il Mattino stila uno step by step “dalle coltellate sotto casa alla lunga agonia”. Era necessario? È dovere di cronaca, questo? O come spesso accade per la morte di giovani ragazze si cade nell’ossessione da cronaca nera? Il manifesto di Venezia parla chiaro: “evitare ogni forma di sfruttamento a fini ‘commerciali’ (più copie, più clic, maggiori ascolti) della violenza sulle le donne”. È preoccupante la gara a chi pubblica più dettagli cruenti, non ha alcuna utilità in termini di diritto all’informazione dei cittadini e non fa altro che alimentare la sofferenza già inconcepibile dei familiari delle vittime.

La congiunzione perfetta tra mancanza di strumenti, disattenzione e presa in giro la raggiunge La Stampa che il 19 novembre propone un sensatissimo “basta foto insieme di Giulia e il suo carnefice. La scure social sui loro ritratti da fidanzati”. E come lo fa? Abbinando il testo a una foto dei due ex insieme. Farebbe ridere se non facesse piangere. È una pratica ahimè inflazionata, quella di ripescare foto dal passato in cui la vittima e l’uomo che l’ha uccisa sorridono in camera; questa settimana lo hanno fatto FanPage, SkyTg24, Open e tante altre testate. Si tratta di immagini distorte che insinuano ben due informazioni sbagliate: che ci sia una coppia felice e che ci sia una coppia. Non soltanto, invece, non ci è dato sapere se il periodo di sofferenze e abusi fosse già in corso al momento dello scatto, ma così facendo si preferisce dare spazio a un fattore irrilevante: l’apparenza esteriore, che nella maggior parte dei casi nulla dice della violenza.

Sempre il giorno successivo alla notizia dell’uccisione di Giulia Cecchettin, dal salotto di Domenica In – con la compiacenza di “Zia” Mara Venier che essendo icona dello spettacolo e regina delle gif trash gode dell’immunità sull’accountability per i contenuti della sua trasmissione – l’ex magistrata e deputata in quota Lega Simonetta Matone afferma che è colpa delle madri se i figli sono disturbati (e poi ammazzano la gente, ndr). Meno di ventiquattro ore dopo si accoda la ministra Eugenia Roccella che ha il superpotere di dire sempre la cosa sbagliata: “è fondamentale che le madri educhino i figli maschi ad avere rispetto delle donne”. Secondo la posizione di questa combo micidiale di menti che hanno interiorizzato il maschilismo, se gli uomini uccidono è comunque colpa delle donne. Delle madri, nello specifico. A loro è richiesto maggiore impegno nell’educare, mentre di padri che si facciano carico di decostruirsi e accompagnare figli e figlie nell’educazione affettiva… nemmeno l’ombra.

Di maschi, invece, fin troppo coinvolti, ci fa dono Grazia con il suo numero speciale contro la violenza sulle donne. Le voci di diciotto uomini bianchi, ricchi e famosi si incontrano per spiegare cosa fanno loro per combattere le discriminazioni di genere. La cover recita “quello che gli uomini non dicono” e ora che lo dicono, effettivamente, si capisce bene perché stavamo meglio prima che lo dicessero. L’attore Andrea Bosca ci fa sapere che “l’uomo violento è in gabbia perché rinnega il suo lato femminile fatto di accoglienza, apertura e ascolto”. Wow, siamo all’angelo del focolare o giù di lì. Combattiamo la violenza armati di stereotipi sulle donne naturalmente più disponibili, dolci e carine. Il cantautore Vasco Brondi ci invita ad ascoltare le donne per rivoluzionare gli uomini e lo fa occupando uno spazio che poteva essere dedicato a far emergere i nostri punti di vista, le nostre paure e le nostre istanze. Per la categoria “nuove proposte”, se la contendono un illuminante Sangiovanni – con le donne iraniane che potrebbero essere sue amiche – e Matteo Paolillo che con una profondità d’analisi da Zecchino D’Oro ricorda che se l’amore fa male, non è amore.

Poi, d’improvviso, Ambra Angiolini, unica donna in mezzo ai protagonisti maschili del numero, secondo cui troppi uomini si sono dimenticati di essere nati non solo da una donna ma anche donna. Con una supercazzola degna del peggior Lello Mascetti, Angiolini ci informa che lei proverebbe “a spiegare a tutti che non esiste solo un modo per rivendicare la propria primitiva mascolinità”. Mi chiedo: ma va rivendicata per forza questa voglia di andare a caccia di mammut e ai raduni di artisti parietali nelle grotte di Lascaux? Scherzi a parte, in cosa consiste questo “essere maschio” o “essere femmina” di cui andare fieri? Perché continuiamo ad attribuire caratteristiche dell’umano al maschile o al femminile per poi dire che in noi convivono? Convivono perché questo binario degli aggettivi non ha senso. Credo che verso la fine del suo discorso abbia detto così anche Angiolini, però mi ha lasciata così confusa che onestamente non ci giurerei.

Qualche contenuto dedicato alla decostruzione della mascolinità tossica si salva, nondimeno è surreale: perché lasciare che siano gli uomini a raccontare le violenze che subiamo, proprio alle porte del 25 novembre? Non c’è già abbastanza spazio per la narrazione maschile tutti gli altri giorni dell’anno? Chiudo con l’attore Marco Bonini che pur di non pronunciare la parola “patriarcato”, appoggiandosi a un neologismo coniato dal figlio, usa l’espressione “millenni di imperialismo maschiettistico”. Poesia.

E a proposito di poesia – una vera, stavolta – “se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”.
Alla Dottoressa Giulia Cecchettin e a tutte le altre che non abbiamo saputo raccontare.