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A Gaza l’accesso all’acqua è sempre stato difficile. Ma oggi è un diritto negato

Prima dell’assedio di questi giorni, i due milioni di abitanti della Striscia di Gaza soffrivano di una costante carenza d’acqua, insopportabile soprattutto in estate. L’acqua usciva dal rubinetto salata e inquinata, in genere non potabile, quando usciva. Per gli usi non alimentari, i residenti erano costretti a utilizzare quest’acqua di pessima qualità in assenza di alternative.

L’acquedotto funzionava in modo intermittente, irregolare e imprevedibile, tanto da costringere la gente a installare serbatoi di compenso sui propri tetti. Per bere e cucinare la gente non aveva altra scelta che acquistare acqua confezionata, spesso di qualità scadente, nonostante le difficoltà economiche. Non trovo indicazioni sul costo dell’acqua imbottigliata a Gaza, ma il costo medio nel mondo è circa 50 dollari al litro, con un minimo di 10 in Egitto. E neppure i dissalatori fornivano acqua sicura a scopo alimentare.

Nella Striscia di Gaza il problema della quantità e qualità dell’acqua era noto da anni. La falda acquifera costiera, unica fonte locale, è stata impoverita dall’eccessivo pompaggio e inquinata dalla contaminazione delle acque reflue: si stimava che meno del quattro percento dell’acqua emunta fosse potabile. Senza contare le elevate perdite degli acquedotti, parecchio obsoleti: perdevano i due quinti del prelievo dai pozzi. L’intermittenza della energia elettrica rendeva poi precario il pompaggio dell’acqua sul tetto in anticipo al blocco dell’acqua corrente. Anche i pochi impianti privati di desalinizzazione funzionano perciò a singhiozzo, fornendo comunque acque di qualità scadente.

A Gaza, il consumo idrico pro-capite è meno di 90 litri per abitante al giorno, al di sotto degli standard urbani di sopravvivenza di 100 litri indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per città di analoghe dimensioni. Gli israeliani, gente virtuosissima e parsimoniosa in materia idrica, consumano 163 litri cadauno in base ai dati dell’Ocse. La popolazione di Gerusalemme, la maggior città israeliana, non supera il milione di abitanti: al crescere della densità urbana e del numero di abitanti la domanda idrica pro-capite cresce. Quello israeliano è comunque un risultato eccezionale, se confrontato con la media Ocse per l’Europa di 445 litri, senza tirare in ballo il consumo lordo statunitense che supera abbondantemente i 1200 litri al giorno.

Non sappiamo bene che cosa stia oggi accadendo a Gaza in materia di acque, potabili e reflue, senza combustibile per pompare l’acqua dai pozzi o alimentare gli avidissimi impianti di desalinizzazione. Fonti delle Nazioni Unite riportate da Cnn parlano di consumi scesi a 3 litri per abitante al giorno. Già prima della guerra, lo storico blocco israeliano della Striscia eludeva uno dei principi fondamentali della convivenza umana, il diritto all’acqua, chiaramente sancito dalle Nazioni Uniti. Oggi questo diritto viene negato.

Nella scorsa primavera questo diritto era stato ribadito con forza: “Il diritto all’acqua e ai servizi igienico-sanitari è un chiaro esempio della indivisibilità, interrelazione e interdipendenza dei diritti umani. Un diritto vitale per raggiungere standard di vita adeguati. Se consideriamo la sicurezza fisica delle donne, la discriminazione dei popoli indigeni, i contadini, le minoranze o il diritto alla salute, a un alloggio adeguato, a un ambiente pulito, sano e sostenibile, alla istruzione, sono tutti intimamente legati all’acqua e alla igiene” (Water is a common good not a commodity, United Nation Human Rights, 22 marzo 2023). Una grida manzoniana.

Mai come adesso suonano irreali le parole dell’ultima enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti: “Quando parliamo di avere cura della casa comune che è il pianeta, ci appelliamo a quel minimo di coscienza universale e di preoccupazione per la cura reciproca che ancora può rimanere nelle persone. Infatti, se qualcuno possiede acqua in avanzo, e tuttavia la conserva pensando all’umanità, è perché ha raggiunto un livello morale che gli permette di andare oltre se stesso e il proprio gruppo di appartenenza”. Sono parole favolose, scritte in cielo ma prive di cittadinanza su questa Terra.