Cultura

Rivoluzioni e guerre: esempi di realismo letterario

“In ogni epoca, se la vita è organizzata in classi sociali, l’impulso che spinge gli uomini è la volontà di potenza. I rudi minatori volevano comandare la città, sottometterla. Il potere politico, per le loro anime ingenue, implicava la conquista di tutto ciò che a loro era sempre stato negato. La parola “rivoluzione”, che sobbolliva dentro di loro come un motore, voleva dire innanzitutto l’accesso a una vita fino allora proibita. L’uomo dalla vita difficile, l’esiliato nel paesino inospitale o nel sobborgo di minatori, arrivava con irruenza a prendere possesso di una nuova esistenza. C’era da meravigliarsi se in un attimo di riposo nella lotta, in qualche negozio abbandonato, stappava qualche bottiglia di champagne e calzava un paio di scarpe nuove?”.

Ottobre rosso nelle Asturie, di José Díaz Fernández (traduzione di Marino Magliani, Edizioni Spartaco), è un’intelligente, obiettivo e intenso reportage letterario (esempio ante litteram del new journalism che impazzerà trent’anni dopo in altre latitudini). Con uno stile che si colloca tra Attraverso la mitraglia di Armand Guerra e Omaggio alla Catalogna, di George Orwell, il testo narra le vicende avvenute tra il 5 e il 19 ottobre del 1934, quando nelle Asturie scoppiò l’insurrezione più importante nel continente europeo dopo la Rivoluzione russa del 1917.

Con una prosa secca, dove il romanzo si fonde con la cronaca, l’autore castigliano narra di dinamitardi e anarchici, di bolscevichi di montagna e di insipidi portavoce socialisti, racconta di pietà gratuite e di ferocia atavica. Spiega perché soltanto nelle Asturie ebbe luogo una vera e propria sollevazione armata, mentre nel resto della Spagna tutto tacque, o quasi, complice una società non preparata all’urto della rivoluzione sociale e della dittatura del proletariato. Le pagine di questo ottimo lavoro scorrono veloci, pregne di nodi narrativi, tra sgangherati soldatini della Guardia Civìl, goffi saccheggi e rivendicazioni ingenue e cariche d’orgoglio. Come detto da un anarchico di Oviedo, protagonista nella moltitudine di protagonisti di questa storia: “La rivoluzione è qualcosa che non finirà anche se ci fate fuori tutti quanti”.

“Erano appesi due immensi ritratti di Stalin e Kim Il-sõng, almeno cinque volte più grandi rispetto alla loro grandezza naturale. Han trovava un che di somigliante nell’algido sorriso dei due uomini, all’inizio l’idea di dover passare tutto il resto della sua vita in quella stanza gli faceva desiderare di farla finita una volta per tutte per porre fine a quello strazio (…) Gli inquirenti gli ponevano tutti i giorni le stesse domande e da lui ricevevano sempre le stesse risposte: un processo senza fine e senza verdetto, che continuò fino a quando non venne trasferito, insieme al dossier del suo caso, nelle carceri di P’yõngyang. Nel frattempo, l’Esercito del Popolo era in rotta lungo tutta la linea del fronte e stava ripiegando verso nord”.

Il signor Han, di Hwang Sŏk-yŏng (traduzione di Andrea De Benedittis, O barra O edizioni), è uno dei romanzi più importanti e riusciti di una delle firme più prestigiose della letteratura coreana contemporanea (sia del Sud che del Nord). Prendendo spunto dalla sua vicenda personale e da quella della sua famiglia, Hwang Sŏk-yŏng racconta, attraverso flashback, flashforward e vuoti temporali, la storia di Han, figura spersonalizzata, un tempo padre, medico, insegnante, costretto dalle casualità della Storia a diventare semplicemente il “signor” Han, null’altro che identifichi questa figura che attraversa le trasformazioni della società coreana e le sue innumerevoli contraddizioni.

Han è un professore, e dottore, in un rinomato istituto di P’yõngyang e allo scoppio della guerra di Corea viene assegnato all’Ospedale del Popolo. Nonostante la devozione verso il proprio lavoro in un ambiente precario, Han viene segnalato dalle autorità comuniste per una mancanza di impegno politico. Dopo essere scampato a un’esecuzione, Han lascia il Nord (e la famiglia) e diventa un profugo al Sud, e anche qui la violenza fisica e verbale, la prigionia, la diffidenza e l’isolamento diventano tratti distintivi della sua esistenza. Realista, romantico, decadente e cinico, Il signor Han si presenta, a mio avviso, come una delle migliori opere che io abbia letto sulla questione coreana.