Cronaca

Alessia Pifferi, più che deficit intellettivo parlerei di disturbo narcisistico

Ha destato enorme interesse nell’opinione pubblica l’interrogatorio di Alessia Pifferi nel processo a lei intentato con l’accusa di omicidio volontario pluriaggravato per aver abbandonato la figlioletta di 18 mesi sola a casa per sei giorni nel luglio 2022 provocandone la morte per inedia e disidratazione.

Lo psichiatra consulente della difesa dell’imputata, Marco Garbarini, basandosi su due test psicologici e su precedenti relazioni degli psicologi del carcere di San Vittore, ha concluso che la Pifferi sarebbe affetta da un deficit di sviluppo intellettivo che le impedirebbe di provare empatia, comprendere i bisogni e la sofferenza altrui, essere consapevole delle conseguenze delle proprie azioni e collocarle nella corretta dimensione temporale. In altre parole, per la difesa, l’imputata non si sarebbe resa conto delle conseguenze fatali che avrebbero potuto portare alla morte una bimba di un anno e mezzo incapace di sostentarsi da sola e di sopravvivere per quasi una settimana nutrendosi di un solo biberon di latte e abbeverandosi da due bottigliette di acqua e una di the.

Grazie a queste conclusioni, l’avvocato difensore della Pifferi, Alessia Pontenani, starebbe puntando a convincere la Corte della necessità di una perizia psichiatrica sulla capacità di intendere e volere della sua assistita.

La questione è di particolare importanza perché qualora il giudice sentenziasse che si è trattato di omicidio volontario, la pena equivarrebbe all’ergastolo mentre se il verdetto pendesse a favore della non volontarietà, l’accusa diventerebbe di abbandono di minore e morte in conseguenza di altro reato ovvero una condotta punibile con una pena che va da un minimo di 5 ad un massimo di 8 anni di carcere.

A mio avviso la Pifferi, che in aula ha fornito alcune versioni in netto contrasto con ciò che aveva affermato nell’immediatezza dei fatti durante l’interrogatorio di garanzia e durante i colloqui con le psicologhe del carcere, ha messo in atto una serie di strategie tese a simulare e dissimulare fatti e avvenimenti che andrebbero a cozzare drasticamente con una diagnosi di disturbo intellettivo e che, piuttosto, farebbero pensare ad un disturbo narcisistico della personalità tesa a soddisfare solo i propri bisogni e ad eliminare gli ostacoli che rendevano impossibile all’imputata la realizzazione dei propri scopi egoistici senza che ciò comporti l’esistenza di un’infermità o di una seminfermità mentale.

Ne sono prova le numerose bugie che la Pifferi racconta per negare le proprie responsabilità di madre quando dice al compagno di allora che può tranquillamente concedersi qualche giorno di libertà a casa sua, nella bergamasca, perché la bambina è in villeggiatura con sua sorella mentre la realtà purtroppo, come ben sappiamo, era totalmente diversa e contemplava l’abbandono di una creatura di un anno e mezzo in un lettino da campeggio dentro l’abitazione di Milano senza cibo e acqua sufficienti alla sopravvivenza e con temperature molto elevate dovute al periodo estivo.

E ancora, la probabile falsa testimonianza in aula, quando la Pifferi dice al pm che non si era mai accorta di essere in stato interessante prima del parto avvenuto nel bagno dell’abitazione del compagno, versione che contrasta nettamente con quella che l’imputata ha fornito alle psicologhe di San Vittore che hanno messo a verbale il racconto della 38enne riguardo alle circostanze che l’avrebbero indotta a confidare alla madre di essere incinta circa sette mesi prima del parto.

Senza contare l’atteggiamento vittimistico di fronte alle domande del pm e la richiesta allo stesso di non essere “sgridata” come se l’imputata, una volta appresa dalle psicologhe la propria condizione di minorata capacità cognitiva, si fosse calata nella parte della madre bambina incapace di badare a se stessa e, di conseguenza, incapace di prevedere le tragiche conseguenze dell’abbandono di una bimba di quell’età. Un atteggiamento che tende a simulare un pentimento che in realtà risulta difficile individuare nello sguardo gelido dell’imputata che non cede mai alla commozione e che piuttosto riporta ad un episodio di cui ho già trattato in questo blog: la richiesta di partecipare ai funerali della piccola, un’esigenza dettata molto probabilmente da una strategia difensiva più che da una repentina presa di coscienza del male fatto ad una creatura fragile ed indifesa.