Cultura

Oppenheimer, Moravia e il disarmo nucleare: così si contraddice il fine della pace tra i popoli

“Sono diventato morte, distruttore di mondi” è un verso della Bhagavadgītā – il libro sacro dell’induismo – che, nel film di Cristopher Nolan, Robert Oppenheimer legge direttamente dal sanscrito e poi, quando a capo del progetto Manhattan assiste all’effetto dirompente dell’esplosione della bomba Trinity nel deserto di Los Alamos, test definitivo con il quale il presidente Truman darà il via allo sganciamento delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, gli ritorna in mente insieme alla consapevolezza.

La visione del film a me ha riportato in mente un testo “inedito” di Alberto Moravia – autore peraltro già evocato recentemente in riferimento alla guerra in Ucraina, da Dacia Maraini sul Corriere della sera dell’11 agosto e da Adriano Sofri sul Foglio del 23 agosto, seppur per considerare utopistico il suo impegno per rendere la guerra un “tabù”. Si tratta del testo di un intervento mai svolto al parlamento europeo, dove Moravia era stato eletto nel 1984, oggi inserito in appendice a L’inverno nucleare (a cura di Alessandra Grandelis, 2022), nel quale lo scrittore spiega come in una tragica eterogenesi dei fini, Hitler – che pure ha perso la seconda guerra mondiale – attraverso le armi nucleari realizzate e usate dai suoi nemici, a nazismo ormai sconfitto, in realtà ha vinto, lasciando l’umanità nell’incubo permanente di “morte e distruzione di mondi”. E’ questa la vera “reazione a catena” proiettata nel futuro, come dicono nel dialogo che chiude il film Oppenheimer e Albert Einstein, che non a caso al progetto Manhattan non ha voluto contribuire in alcun modo.

“Nei primi anni del dopoguerra”, scriveva Moravia probabilmente nel 1987, “la situazione era questa: la Germania nazista aveva elaborato una teoria (quella della cosiddetta soluzione finale ossia del genocidio totale) che giustificava la bomba come la sola arma che permettesse la strage di massa, ma non aveva saputo creare la bomba. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica dal canto loro non avevano alcuna teoria che giustificasse la bomba ma avevano la bomba. Anzi gli Stati Uniti, nel 1945, avevano costruito e lanciato la bomba (…). Oggi vediamo che genocidio è sinonimo di guerra e violenza. Infatti la bomba, proprio per il suo carattere specifico di arma di strage di massa, si tira dietro la teoria nazista della soluzione finale, anche se chi ce l’ha si proclama in buona fede, nemico del nazismo. Al processo di Norimberga”, continuava lucidamente Moravia, “la teoria della bomba (cioè della soluzione finale) fu solennemente condannata come una teoria contraria alle leggi della guerra. Ma non ci si accorse che non bastava condannare la teoria ma si doveva mettere fuori legge l’arma nucleare che di quella teoria era l’indispensabile corollario. Questa mancata consapevolezza del segreto e strettissimo rapporto tra bomba e teoria della soluzione finale impedì di rendersi conto che Hitler, lungi dall’essere stato sconfitto, era il vero vincitore della seconda guerra mondiale”.

In fondo quella di Alberto Moravia è la stessa critica al principio del “fine che giustifica i mezzi” portata avanti dal pensiero nonviolento, da Mohandas Gandhi ad Aldo Capitini, perché i mezzi usati nei conflitti non sono mai neutri ma determinano e modificano i fini. Fino a trasformarli nel loro contrario, se ad essi incoerenti. La lettura di questo e degli altri scritti contro le armi nucleari di Alberto Moravia può essere uno strumento molto utile per comprendere davvero la reale posta in gioco raccontata nel film di Nolan, al di là della pur complessa vicenda biografica di Oppenheimer: un gioco a somma negativa, ancora pienamente in corso, nel quale non possono esserci vincitori. In cui il mezzo della proliferazione delle armi nucleari impedisce e contraddice il fine della convivenza pacifica tra gli Stati e i popoli.

Il regista ha fatto la scelta stilistica di evocare senza mai mostrare le vittime delle due bombe atomiche sganciate sulle città giapponesi. Invece è necessario vedere, o almeno farsi raccontare, che cosa è successo a Hiroshima e Nagasaki, per capire pienamente la vicenda narrata nel film. Non a caso gli scritti e l’impegno di Moravia contro la guerra sono anche l’esito di tre viaggi in Giappone, nel 1957, nel 1967 e nel 1982. Così come fu fondamentale il viaggio a Hiroshima e Nagasaki nel 1958 per il filosofo Günther Anders, che ne scrisse il celebre “Diario” intitolato Essere o non essere, di cui è fondamentale leggere, per comprendere il nostro presente, anche le Tesi sull’età atomica del 1960 e il carteggio con uno dei piloti di Hiroshima, Claude Eatherly, “l’ultima vittima” della bomba. Il maggiore finito nel manicomio militare sotto il peso – disconosciuto e nascosto dal sistema politico e militare Usa – della responsabilità del male: come per Oppenheimer, anche sulla sua drammatica storia bisognerebbe, prima o poi, girare un film.

Visto il film di Nolan e lette almeno queste opere fondamentali di Moravia e Anders, non rimane che trasformare l’indignazione e il senso di impotenza in azione, sostenendo attivamente la Campagna internazionale per il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (Tpnw) – la loro messa fuori legge invocata da Moravia – entrato in vigore nel 2021 e sottoscritto da 68 Stati. Ma non ancora dal nostro Paese e dalle potenze nucleari, le maggiori delle quali si fanno follemente la guerra sul territorio ucraino. Accusandosi reciprocamente, e non a torto, di nazismo.