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Karadzic, il boia di Sarajevo che fu fuggitivo alla luce del sole. Un eroe, per alcuni serbi

Quindici anni fa, il 21 luglio del 2008, viene fermato, mentre sta per salire sull’autobus 73 delle linee pubbliche di Belgrado, un anziano dall’aspetto imponente, con una gran barba bianca e gli occhiali, la fronte dissimulata da un cappello chiaro, le gote pallide, lo sguardo perduto in chissà quali pensieri. “Radovan Karadzic, la dichiariamo in arresto!”, intima un agente in borghese.

Karadzic. Il boia di Sarajevo. Il carnefice della Bosnia. Quando nel 1991 la federazione jugoslava si dissolve e a Sarajevo, dove convivono tre nazionalità (musulmani, serbi, croati) scoppia il caos, Karadzic assume il ruolo di teorico radicale della guerra, quale strumento indispensabile per attuare la pulizia etnica. Come dichiara esplicitamente nell’ottobre del 1991, al parlamento, evocando l’estinzione del popolo musulmano bosniaco, lungo “l’autostrada della rovina e della morte”. In un crescendo di agguati, attentati, scontri a fuoco e blitz militari, Karadzic, nato in Montenegro nel giugno del 1945 (il padre Vuko è un cetnico, i guerriglieri monarchici jugoslavi che combattono i partigiani di Tito e per questo finirà in galera a lungo) diventa il 9 gennaio del 1992 presidente dell’autoproclamata Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, in cui la stragrande maggioranza dei serbi vuole unirsi con la Serbia retta da Slobodan Milosevic che avallerà i progetti di Karadzic, per assediare Sarajevo.

“Vi sbagliate: sono il dottor Dragan Dabic, vengo da New York, ho studiato psicoterapia a Zagabria, ho uno studio al 267 di viale Yuri Gagarin”, l’indirizzo nella periferia dormitorio di Novi Beograd, la Nuova Belgrado. I poliziotti lo sanno. E’ da oltre un mese che seguono questa pista, come confermerà Bruno Vekaric, portavoce del Tribunale per i crimini di guerra. In realtà, a confermare i sospetti è l’arresto a Nis di Stojan Zupljanin, ex capo delle forze di sicurezza serbo-bosniache, molto legato a Karadzic. Gli trovano, in un libro, codici che dissimulano nomi di persone e di città. Uno di questi è Dabic. Alias Karadzic. Ma come esserne certi?

Per oltre dodici anni era riuscito sempre a far perdere ogni traccia. Dal 1996, infatti, era inseguito dal mandato di cattura del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia dell’Aja e da altrettanti mandati dell’Interpol. Lo braccava l’intelligence della Nato. Il Dipartimento di Stato americano aveva messo su di lui una taglia di cinque milioni di dollari. Accuse infamanti e terribili: genocidio (il massacro di Srebrenica, più di settemila ostaggi musulmani bosniaci, liquidati e seppelliti nelle fosse comuni del campo di Potoćari), crimini di guerra e crimini contro l’umanità (durante i quattro anni dell’assedio di Sarajevo) e in decine di altre località dove era stata applicata la “pulizia etnica”, spacciata per “rigenerazione nazionale”, in difesa dei diritti dei serbo-bosniaci (presunte vittime dei soprusi e dell’arbitrarietà del titoismo).

Karadzic, e con lui il complice generale Ratko Mladic, erano diventati i simboli del male assoluto. Eppure, nessuno li trovava. Erano protetti. Karadzic, d’altra parte, per la chiesa ortodossa greca, era “uno dei più illustri figli di Nostro Signore Gesù Cristo che lavora per la pace”, al punto che nel 1994 lo decora con l’Ordine dei Cavalieri di san Dioniso di Zante. Ancor più esplicito il patriarca ecumenico Bartolomeo di Costantinopoli, che giustifica ciò che fa Karadzic: “Il popolo serbo è stato scelto da Dio per proteggere le frontiere occidentali dell’ortodossia”.

Karadzic ha un talento innato per i camuffamenti. Qualche volta viene in Italia per assistere alle partite dei calciatori serbi di cui è tifoso sfrenato (lo rivelerà il figlio). Vive a Vienna come Peter Glumac, finge di essere un venditore croato di soluzioni alle erbe e unguenti. Fugge dalla capitale austriaca perché qualcuno lo avverte che sta per essere catturato.

Va a Belgrado, dove aveva un tempo lavorato in un ospedale dopo la laurea in psichiatria. E’ l’estate del 2006. Si presenta da Mina Minic, uno psicoterapeuta, esperto di medicina alternativa, che predica la bioenergia e la radioestesia. Vuole diventare suo allievo. Nel corso dei mesi, la loro collaborazione si rafforza al punto che Minic nomina Dabic “generale in radioestesia”. Insieme esaminano un sacco di pazienti, di inconsolabili, di gente che medita il suicidio, che racconta la propria miseria, l’angoscia. E la guerra. Sono molti gli ex combattenti che cercano conforto da Minic. E da chi quella guerra l’ha scatenata quindici anni prima.

A cosa pensava, Dabic alias Karadzic, nell’ascoltare i reduci rosi da ricordi efferati?

Da boia a guru… sotto la sua treccia attaccata in cima alla massa dei capelli che con la barba così folta gli danno un aspetto messianico, Karadzic è un attore formidabile, geniale e addirittura sfrontato. Aiuta a fondare, per esempio, l’associazione Nikola Tesla, specializzata in agopuntura, pressione delle mani e ricerca di radiazioni negative. Redige persino un “codice comportamentale del terapeuta”, in pieno fervore new age. Diventa un guaritore rispettato. Fa pubblicità su internet. Sulla sua carta da visita si legge che combatte il diabete, lo stress, l’invecchiamento. Contatta il sessuologo Savo Bojovic, noto per la sua battaglia contro il calo delle natalità in Serbia ma soprattutto per lo studio comparativo sulla lunghezza del pene in Europa, secondo cui quello dei serbi non lo batte nessuno. Insomma, nazionalismo che Karadzic non può non apprezzare.

Il paradosso è che Karadzic – nella sua nuova identità – non si nasconde affatto: partecipa alle conferenze, sempre in prima fila. Il fuggitivo alla luce del sole. Dalla pulizia etnica alla meditazione ortodossa e la “sensazione corporale di benessere dello Spirito Santo”, scrive sul mensile serbo “Vita sana”. Un narciso. Un narciso nero. Da giovane scriveva e pubblicava libri di poesie, ricomincia a farlo. Nel solco dei guerrieri serbi che combattevano contro l’occupante musulmano… Qualche psicanalista pensa che a Karadzic piaccia essere Dabic. Durante la sua latitanza scrive un dramma sulla notte, nel 2002. Di lui si racconta che una sua vecchia paziente di Sarajevo, una bosniaca, lo chiamasse in piena crisi per il terrore dei bombardamenti sulla città: “Scendete in cantina e respirate come vi ho insegnato…”, le rispose.

Nella latitanza è stato sicuramente aiutato da molti serbi che lo considerano un eroe, ancor oggi. I servizi segreti di Belgrado gli hanno fornito documenti falsi, quelli di un contadino. Nel quartiere di Belgrado dove trova alloggio i vicini dissero che pensavano fosse un pittore. Avessero saputo chi era in realtà, però, non l’avrebbero mai tradito, tant’è che diecimila persone manifestarono il 30 luglio 2008 contro l’estradizione all’Aja di Karadzic, il quale verrà poi condannato nel marzo del 2016 a 40 anni in primo grado, all’ergastolo in appello nel marzo del 2019. Due anni fa, alla fine di maggio del 2021, lascerà la prigione dell’Aja per finire alla His Majesty’s Prison dell’isola di Wight, un carcere di massima sicurezza britannico.

Oggi, in una Serbia che si dibatte sempre sul suo passato sanguinoso e tragico, l’ex potente Karadzic è considerato dalla destra e dai nazionalisti una vittima, non un mostro. La sua cattura? Una pagina di storia che si gira, frutto di opportunismi politici. La Grande Serbia vagheggiata da lui, da Milosevic, da tanti intellettuali e ultranazionalisti? Un azzardo, ma non troppo… Laddove c’è una tomba serba la terra è serba, è un concetto diffuso, popolare. Il famigerato generale Ratko Mladic lo precisò con parole più truculenti: “Ovunque una goccia di sangue serbo è stata versata, la terra è serba”. Allora, l’ideale multietnico e il multiculturalismo erano i nemici da distruggere: i quattro anni dell’accerchiamento di Sarajevo furono l’emblema di questo scontro, in cui gli abitanti resistettero stoicamente al feroce assedio dei serbi. Oggi, l’estrema destra serba (ma non solo) demonizza quegli ideali.

E i nazionalismi risorgono tracotanti, alimentati da frustrazioni sociali, economiche, politiche. In Bosnia non c’è da sorridere, le ferite della guerra non si sono rimarginate. Il diritto al ritorno nella ex-Jugoslavia è difficile, complicato. Centinaia di migliaia di persone andate in esilio non sono più tornate. Paura, diffidenza. Il ritorno è un processo molto lento, perché presuppone anche la sicurezza e la dignità, ossia la piena reintegrazione sul posto. Gli ostacoli specifici perdurano e poi il ritorno dei rifugiati non significa che la Bosnia-Erzegovina abbia ritrovato il mosaico etnico di prima, quando le comunità ortodosse, musulmane e cattoliche convivevano, senza essere nettamente separate. Succede purtroppo che i rifugiati non tornino più dove erano prima. Preferiscono vendere o scambiare la propria abitazione a un membro della popolazione maggioritaria, e trasferirsi dove la propria lo è. Paradossalmente, è il completamento della pulizia etnica. E la sepoltura definitiva del velleitario slogan jugoslavo “fraternità e unità”. Di esso non restano che lacrime e sangue.

Così come restano le ricorrenti accuse di revisionismo storico che si lanciano addosso le diverse componenti della Bosnia. Ognuna ha la sua narrazione, le sue verità, le sue questioni irrisolte. Ultima quella legata al discusso e discutibile progetto di un museo nell’ex campo di detenzione di Heliodrom, non lontano da Mostar, dedicato al Primo reggimento delle forze armate di Bosnia-Erzegovina (creato nel 2005). Il problema è che questo reggimento è l’erede del Consiglio per la Difesa croato (Hvo), i cui soldati trasformarono Heliodrom in un famigerato campo dove i prigionieri (migliaia di civili serbi e musulmani) erano internati e torturati, poi usati come forza lavoro o scudi umani. L’idea era stata partorita da un precedente sodalizio tra nazionalisti croati e bosniaci – mere provvisorie convergenze d’opportunità politica – ed è in parte finanziato da Zagabria, oltre che dall’associazione dei decorati di guerra dell’Hvo.

Fiere le proteste dei familiari delle vittime e dei sopravvissuti che se la sono pigliata col governo. Il quale, in Bosnia, è frutto di delicati e instabili equilibri politici, per garantire stabilità e sicurezza in un quadro invece altamente provvisorio e incerto. La presidenza rotante (a turno in quota al leader croato, serbo e bosniaco) non riesce più a frenare i rinascenti nazionalismi, usciti rafforzati nell’ultimo voto del 2022. Gli scrutini sono di una complessità inaudita e i risultati portano ad alchimie ardite. Il che radicalizza le opposizioni e gli estremismi, con la inevitabile conseguenza che il governo ne è sempre più spesso ostaggio.

Né va meglio in quei territori dell’ex-Jugoslavia – soprattutto in Kosovo – dove sono evidenti i tentativi di destabilizzazione predicata dalle formazioni nazionaliste (talvolta collegate a frange criminali serbe e a infiltrati ultrà della Stella Rossa di Belgrado). Le ricorrenti crisi tra Kosovo e Serbia – punteggiate da incidenti sanguinosi, come qualche settimana fa a Zvecan, cittadina a maggioranza serba nel nord del Kosovo – dimostrano che sotto la cenere delle tregue cova tanta, troppa brace. L’estrema destra serba, in particolare, cerca di far salire la tensione fino allo scontro, usando – come fecero Karadzic e Milosevic – la retorica patriottica, anticamera della violenza armata. L’impressione degli osservatori internazionali è che si sia dunque pericolosamente sull’orlo di un nuovo conflitto. Del resto, la guerra del Kosovo è l’ultima delle guerre jugoslave e dei venti separatisti che non accennano a placarsi. Come nel caso di Banja Luka, dove i serbo bosniaci minacciano di creare un loro stato indipendente, disintegrando così la faticosa unità della Bosnia-Erzegovina sopravvissuta a Karadzic. Le sole frontiere divenute a priori intangibili sono quelle di Slovenia e Croazia, perché fanno parte dell’Unione Europea. Difficile sperare che a trattenere i rancori sopiti siano le promesse di Bruxelles, come quella data a Sarajevo e dunque alla Bosnia-Erzegovina integrale, ossia lo statuto di “candidato Ue”.