Cultura

I luoghi della cultura si aprono all’uso privato: arriveranno più risorse, ma anche più differenze

Il significato delle singole parole è importante, come è ovvio. Ma poi esiste il sottotesto, quasi sempre. Insomma quel qualcosa che non è espresso, esplicitamente, ma che può dedursi, andando al di là delle parole.

Non è improbabile che sia necessario ricorrere a questo artificio letterario per dare un senso compiuto ad alcune recenti decisioni del Ministero della Cultura, riguardo prima di tutto la prenotazione e la vendita degli ingressi – che saranno gestiti da una piattaforma statale – ma anche riguardo i canoni d’uso di immagini e spazi dei Luoghi della cultura statali. Districandosi tra atti d’indirizzo, circolari e linee guida, con un punto fermo inequivocabilmente chiaro, indicato direttamente dal ministro Sangiuliano come una priorità relativamente alla “valorizzazione, anche economica, del patrimonio culturale”: la necessità “di ridurre i casi di concessione a titolo gratuito degli spazi e delle immagini e garantire un’adeguata remuneratività degli stessi”. Scelta di per sé tutt’altro che discutibile, se non divenisse una sorta di grimaldello che apre ogni porta.

Già, perché l’idea di incrementare le entrate di spazi per i quali le risorse statali non sono quasi sufficienti a garantirne una adeguata manutenzione è condivisibile. Le aree archeologiche all’aperto hanno bisogno di interventi, così come i musei. Non differentemente dagli archivi e dalle biblioteche. Banalmente, l’erba cresce e va sfalciata, le lampade che si fulminano vanno sostituite, come i pannelli e le didascalie, poco leggibili, oppure divenute vetuste. Tutto legittimo. Fatta eccezione per l’idea che ogni Luogo della cultura abbia un prezzo. E quindi sia commerciabile, in qualche modo.

Per farsene un’idea precisa è sufficiente scorrere le “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali”. Vi occorre una riproduzione di beni? Nessun problema! Sia che si tratti di stampe fotografiche oppure di immagini digitali, di videoclip oppure diapositive, fotocolor oppure microfilm, di ingrandimento da microfilm oppure scansioni e fotocopie. Invece, siete interessati all’uso degli spazi? Si può fare! Sia che si tratti di spazio in consegna al concedente che di riprese video, cinematografiche e televisive oppure servizi fotografici. Però il costo dipenderà dalle “dimensioni”, ma anche dalla “classe di pregio”, compresa tra quella “media” e quella “eccezionale”, passando per quella “alta”.

Gli elementi per la relativa valutazione? Ci sono anche quelli, se si sceglie un Luogo con un “alto numero di visitatori” e “testimonianza unica o eccezionale di un’epoca e/o di un periodo storico”; magari “realizzato su commissione di eminenti casate e/o eseguito da architetti e/o artisti di rilevanza” e “caratterizzato dalla presenza di affreschi, stemmi, mosaici graffiti, lapidi, iscrizioni, tabernacoli ed altri elementi artistici, architettonici e/o decorativi”. Tanto più se con “presenza di collezioni d’arte permanenti”. Se si sceglie un ruolo con queste caratteristiche ci si è orientati verso l’alto e l’eccezionale. La circostanza che si tratti di un uso individuale oppure privato poco cambia. Anzi non cambia niente. Così come se le finalità che sottintendono all’uso siano di tipo istituzionale oppure lucrativo. Muta il prezzo. Soltanto quello.

Il risultato evidente? Arriveranno più risorse, probabilmente. Ma dietro alla notizia “bella” se ne nasconde un’altra, di segno opposto. Il risultato meno evidente, ma reale, è che mentre ci sono persone in grado di affittare per il proprio evento una sala degli Uffizi, ce ne saranno molte altre impossibilitate a pagarsi il biglietto d’ingresso a quello stesso museo. Il rischio è che a fronte di qualche fortunato nelle condizioni di godersi comodamente un quadro sorseggiando prosecco ci siano molti impossibilitati a passeggiare per le sale del museo.

Sembra di essere tornati all’idea in voga alla fine degli anni Ottanta che il patrimonio storico-artistico e archeologico sia un quasi sterminato giacimento al quale attingere, come si può. Naturalmente gli interpreti politici sono mutati, come le parole. I termini del discorso sono stati adeguati. Ma la sostanza rimane immutata. Insomma il sottotesto è il medesimo. Bisogna “far fruttare” quel che si ha. Indiscriminatamente.