Lavoro & Precari

Sindacati, a dieci anni dall’accordo con Confindustria misurare la rappresentanza resta un miraggio. E pagano i lavoratori

A quasi dieci anni dal Testo unico sulla rappresentanza firmato da sindacati confederali e Confindustria, la misurazione dell’effettivo peso delle sigle nei diversi comparti è ancora un miraggio. La questione è tutt’altro che formale: in ballo c’è la valutazione dell’effettivo diritto di negoziare contratti collettivi validi per tutti i lavoratori. E dunque la difesa dai contratti pirata con trattamento economico e tutele molto inferiori rispetto a quelle dei ccnl principali. Non solo: le proposte di legge depositate in Parlamento sul salario minimo legale fanno tutte riferimento ai minimi previsti dai contratti stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative e la stessa direttiva Ue sulla materia imporrà di dimostrare quali sono settore per settore. “Nessuno sembra interessato a portare a termine questa verifica”, commenta Claudio Lucifora, docente di Economia del lavoro alla Cattolica e consigliere del Cnel. “Servirebbe una legge”. Cgil e Uil concordano. Ma finora nessun governo ci ha davvero provato, nonostante la sponda dell’articolo 39 della Costituzione che prevedeva la registrazione delle sigle e la validità erga omnes dei contratti stipulati dai sindacati “rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti“.

Al momento gli unici dati a disposizione sono quelli sul tesseramento autocertificati dalle sigle, da cui risulta che i confederali hanno in tutto 6,4 milioni di iscritti tra i lavoratori attivi (2,6 milioni per la Cgil, 2,4 milioni per la Cisl, 1,4 milioni per Uil) e 4,6 tra i pensionati (rispettivamente 2,5 milioni, 1,6 milioni e e 566mila). Non bastano: stando a tutte le intese dell’ultimo decennio, per stabilire chi è più rappresentativo occorre che le aziende comunichino quanti dei loro dipendenti sono iscritti, attraverso il numero delle deleghe relative al versamento dei contributi sindacali, e che quel dato sia ponderato con quello sui voti ottenuti alle elezioni delle rsu, a cui partecipano anche i non iscritti. Lo hanno previsto l’accordo interconfederale del 2011, il Testo unico del 2014 che disponeva il monitoraggio su 68 contratti tra cui quello dei metalmeccanici, dell’edilizia e dell’industria turistica, il nuovo accordo interconfederale del 2017, il Patto per la Fabbrica del 2018 e la convenzione del 2019 sulla raccolta dei dati. Risultato: nulla di fatto. Il Comitato di gestione “presieduto da un rappresentante del ministero del Lavoro e composto da due componenti designati da Confindustria e dai rappresentanti delle organizzazioni sindacali che raggiungano la soglia del 5% della rappresentanza”, che a partire dal 2019 avrebbe dovuto proclamare ogni anno “il risultato della misurazione e certificazione della rappresentanza per ogni singolo ccnl censito”, non è nemmeno stato creato.

Cosa si è fatto finora? L’Inps, che ha il compito di raccogliere i dati sui voti ottenuti alle elezioni delle rsu e ponderarli con quelli degli iscritti, ha iniziato nell’autunno 2021 una sperimentazione limitata ai lavoratori con ccnl metalmeccanico e chimico. Ma i confederali spiegano al fattoquotidiano.it che non essendoci un obbligo non tutte le aziende inviano i dati sulle deleghe attraverso i flussi Uniemens e che i dati sono ancora in fase di elaborazione e comunque incompleti. “La sperimentazione riguarda solo una piccola parte dei lavoratori coperti dai contratti firmati da Confindustria”, dice Francesca Re David, segretaria generale della Fiom. “La diffusione dei risultati? Quelli sui metalmeccanici li abbiamo comunicati lo scorso settembre: dicevano che Fiom rappresenta, nelle aziende che applicano il contratto nazionale Federmeccanica, il 50,95% dei lavoratori”. L’annuncio però non ha fatto che aumentare la confusione: la Fim ha immediatamente chiamato in causa l’Inps che ha smentito di aver “certificato” alcunché, aggiungendo che si trattava di numeri parziali.

La verità è che la raccolta delle informazioni è complicatissima. Tiziana Bocchi, segretaria confederale Uil, racconta che fino ad oggi Sicilia, Friuli Venezia Giulia e le province di Trento e Bolzano con l’alibi dell’autonomia non hanno costituito il nuclei territoriale necessario per raccogliere e vagliare i dati sulle elezioni delle rsu. In alcuni settori merceologici le dichiarazioni inviate dalle aziende coprono meno del 50% degli addetti. Nel comparto dei servizi le rilevazioni sono in alto mare, per l’industria solo “a metà 2024 dovremmo aver chiuso le sperimentazioni e poter dare i primi dati ufficiali”.

Lucifora fa notare che “il nodo più delicato è definire i perimetri della rappresentanza, a partire da quella datoriale, perché Confindustria e le altre confederazioni e associazioni delle imprese non hanno mai trovato un accordo. Quindi non c’è modo di sapere chi rappresenta chi all’interno di un settore o di una categoria”. Di questa confusione sono vittime indirette i lavoratori, soprattutto in comparti come il commercio, la logistica e le costruzioni, in cui i ccnl firmati dalla triplice e dalle maggiori organizzazioni datoriali non sempre coprono la stragrande maggioranza degli addetti e proliferano i contratti pirata che fanno pressione al ribasso sul resto della contrattazione. “La direttiva europea sul salario minimo prima o poi ci costringerà però ad affrontare il problema”, prevede il docente. “Perché stabilisce che non ci sia l’obbligo di stabilirlo per legge nei Paesi in cui la contrattazione collettiva copre più dell’80% dei lavoratori. E al momento noi non siamo in grado di provare il rispetto di quella soglia. Non basterà dire che in Italia “nel complesso” ci siamo: Bruxelles chiederà di definire quali sono i contratti maggiormente rappresentativi settore per settore e quale percentuale di dipendenti coinvolgono”.

A quel punto servirà una legge. Che però, ancora una volta, potrebbe non cambiare le cose per i diretti interessati: “Non ci sono solo i contratti pirata”, avverte Lucifora. “Molte imprese medio piccole applicano il ccnl siglato dalle organizzazioni più rappresentative ma poi non pagano gli straordinari o assumono a termine e fanno lavorare più ore, con il risultato che versano retribuzioni effettive molto più basse di quelle previste da contratto. Situazioni difficili da verificare attraverso la vigilanza e a fronte delle quali è difficile che il lavoratore protesti”. La soluzione? “Con un salario minimo legale sarebbe più semplice. La violazione sarebbe evidente, non servirebbe l’istruttoria di un giudice per capire se c’è violazione. Basterebbe chiamare i carabinieri“.