Ambiente & Veleni

Il settore agricolo costretto a fare i conti con la siccità: si rivedono le vocazioni territoriali e i tipi di irrigazione. Ma sostituire le coltivazioni non è sempre possibile

Nelle province del Veneto quest’anno gli agricoltori hanno deciso di seminare più frumento, al posto di soia e mais, altrove sostituito con il sorbo. Nel Pavese c’è chi inizia a coltivare orzo invece del riso e per le vigne si sperimentano varietà che crescono con meno acqua. La siccità in agricoltura richiede più azioni: da un lato serve aumentare la risorsa idrica disponibile (si parla di invasi, desalinizzazione, riuso di quelle reflue), dall’altro si punta a ridurre i consumi. E qui le strade sono due: colture meno idroesigenti e tecnologie di precisione anti-spreco. Alcuni cambiamenti sono in atto, ma già in passato il mercato ha spinto verso scelte azzardate.

Impensabile abbandonare completamente alcune coltivazioni, come ortaggi o riso (di cui l’Italia garantisce il 50% della produzione in Europa, ndr), ma a un certo punto occorrerà prendere decisioni difficili, pensando soprattutto alle vocazioni dei terreni”, spiega a ilfattoquotidiano.it Claudio Cantini, ricercatore dell’Istituto di Bioeconomia del Cnr, secondo cui occorre “scegliere, nell’ambito delle singole specie, le varietà che meglio si adattano ai cambiamenti climatici”. La storia ci offre le alternative: in tutta la penisola in passato si coltivavano viti, ulivi e cereali completamente in asciutto. E c’erano varietà, anche di legumi, oggi completamente sparite. Esperimenti sono in corso per capire, poi, se e con quali tecniche si possa utilizzare meno acqua per i prodotti che arrivano sulle tavole degli italiani: dal formaggio alle zucchine.

Fare i conti con i cambiamenti climatici – D’altronde si impone un ripensamento generale dell’agricoltura. “Non c’è una regola che valga per tutte le colture e ogni area del Paese richiede risposte diverse”, spiega Cantini. L’ortocultura, per esempio, necessita in genere di molta acqua. “In piena area (non in serra) si potrà coltivare, ma solo a determinate condizioni e se c’è disponibilità di acqua. In alcune aree non si potranno più coltivare alcuni tipi di ortaggi”, aggiunge. Nella pianura grossetana “potranno ancora essere conservati i cereali, ma mais e girasole richiedono quantitativi di acqua che non sono più disponibili e rendono queste colture poco convenienti”. Sta già accadendo in Veneto, dove invece del mais molti agricoltori seminano soia e frumento, una volta molto meno coltivato al Nord. In Piemonte è a rischio un terzo della produzione di riso, grano e orzo. Di fatto, nel 2022 la produzione italiana di riso è calata del 30% e, secondo Coldiretti, nel 2023 saranno coltivati 8mila ettari di riso in meno rispetto allo scorso anno.

Sostituire le colture, tra limiti e ostacoli – “È normale che vi sia una resistenza nelle aree dove si è sempre coltivato, come il Vercellese, ed è anche giusto tentare tutte le strade. Si è provato – aggiunge Cantini – a coltivare alcune varietà di riso senza la quantità di acqua normalmente richiesta, ossia quasi 20mila metri cubi per ettaro. Alla fine ciascun risicoltore dovrà bilanciare costi e benefici e chiedersi se non gli convenga concentrarsi su altro”. Come sta accadendo in diverse aree del Paese. Lo hanno raccontato a ilfattoquotidiano.it alcuni risicoltori in provincia di Pavia, prima produttrice in Europa. C’è chi inizia a coltivare orzo, mettendo in conto svantaggi legati anche al mercato e vantaggi rispetto al consumo di acqua. Le sostituzioni, infatti, non sono senza ostacoli. Intanto c’è il discorso legato al terreno: “È vero che le patate consumano meno acqua, ma non si possono produrre ovunque perché, per esempio, non sono adatte ai terreni troppo argillosi”, spiega Cantini. Un altro ostacolo potrà riguardare, paradossalmente, le aree più protette: “Tutte le zone che hanno una denominazione di origine protetta seguono un disciplinare all’interno del quale sono già indicate le varietà che devono essere coltivate. Quindi – spiega – sotto il profilo burocratico sarà più difficile sostituire le colture nelle zone che abbiamo protetto di più”. Importare da altre zone del mondo? “Sostituire le nostre colture con quelle di zone subdesertiche o di paesi dove piove meno e le temperature sono più alte, non è un’operazione così facile. I costi di produzione in Italia sono più alti rispetto a quelli dei Paesi con cui entreremmo in concorrenza”.

Seguire le vocazioni – Secondo Cantini “non bisogna lasciare nulla di intentato” ma occorre sfruttare le conoscenze scientifiche e agronomiche per rivedere le vocazioni di terreni e zone, anche in funzione degli effetti del cambiamento climatico. Nella pianura grossetana, per esempio, al posto del grano sono stati di recente piantati 600 ettari di uliveti (l’estensione di una città), che hanno un elevato bisogno di acqua. “È un errore piantare una coltura che richiede 3.500 metri cubi di acqua per ettaro all’anno, ossia 30 milioni di litri per ogni stagione di adacquamento, in una zona con una vocazione naturale alla coltivazione di cereale in asciutta”, commenta Cantini. Una scelta legata al mercato, alla richiesta di olio, al prezzo che sale e al fatto che altri Paesi sono in difficoltà. In generale, quella di spostare colture come ulivi e viti dal Sud al Nord, perché le previsioni sul clima ci dicono che le temperature saranno sempre più alte, non è detto che sia una scelta senza insidie. “Conosco un produttore che aveva piantato a Udine 50 ettari di uliveto, ma al terzo anno una gelata ha distrutto tutto” racconta Cantini. Ma se il Sud sarà più siccitoso, come si farà? “Non credo che vivremo una desertificazione completa del Sud. D’altronde gli ulivi sono in Africa, resteranno anche in Italia, magari non delle stesse specie e non coltivate allo stesso modo in cui si è sempre fatto”.

La storia ci dice dove cercare le alternative – E questo non riguarda solo gli ulivi. “Da qui ai prossimi 20 anni – spiega Cantini – sfruttando le conoscenze agronomiche, ripescando nella nostra storia e nella biodiversità italiana, dobbiamo scegliere le varietà che meglio si adattano ai cambiamenti nell’ambito delle singole specie”. Quando una volta non c’erano i grandi consorzi irrigui con i sistemi di adacquamento, in tutta la penisola si coltivavano viti, ulivi e cereali completamente in asciutto. “I fagioli – racconta Cantini – crescevano anche senza grande cura”. Con le nuove tecniche agricole, alcune varietà di legumi e cereali sono poi sparite in favore di altre più adatte al mercato, con più resa e particolari caratteristiche. “Abbiamo scoperto che una vecchia varietà di pomodoro una volta coltivata in Toscana e poi abbandonata – racconta – in realtà era una delle più resistenti in condizioni di scarsità d’acqua”. Stesso discorso per alcuni ceci, come il cece rugoso della Maremma. “Abbiamo provato a rimetterlo in produzione. Non è molto produttivo – aggiunge Cantini – né particolarmente grande, ma una volta quella pianta era coltivata perché capace di resistere nei mesi in cui c’era poca acqua”. Nel Grossetano, una volta si coltivavano ettari ed ettari di carciofo: “Il Violetto di Toscana è sparito e si è andati verso ibridi che producono di più. Potrebbe ancora essere coltivato in zona, mentre per gli ibridi non ci sono più le condizioni”. Il passo successivo, a lungo termine, potrà essere il miglioramento genetico “andando a cercare gli incroci che meglio si adattano al nuovo clima. Sulla carta oggi lo fanno tutti gli enti di ricerca, ma gli investimenti sono pochi”.

Irrigare meno, gli esperimenti sulle colture – C’è anche chi sperimenta, e non da oggi, gli effetti sulle colture di sistemi di irrigazione anti-spreco. “L’irrigazione di precisione – spiega Alberto Montanari, professore di Costruzioni Idrauliche, Marittime e Idrologia all’Università degli Studi di Bologna – consente di dare alla pianta esattamente la quantità di cui ha bisogno nel momento in cui ne ha bisogno”. Lo si può fare con l’irrigazione a goccia “utilizzata nelle colture localizzate, come i frutteti – aggiunge – o per aspersione (a getto) in quelle più estese, come per i prati per la produzione di foraggio. Queste tecniche consentono, tra l’altro, di ridurre l’evapotraspirazione”. Proprio in Emilia-Romagna quasi vent’anni fa il Centro Ricerche Produzioni Animali di Reggio Emilia ha condotto un esperimento sul foraggio utilizzato per le vacche dalle quali si produce Parmigiano Reggiano. “Sui prati stabili dell’alta pianura di Parma e Reggio Emilia, quelli che non vengono mai lavorati e sono lasciati allo stato naturale – racconta Montanari – sono state messe a confronto le due tecniche irrigue dell’aspersione (che richiede meno acqua) e dello scorrimento, utilizzata da secoli”. Come si legge dal documento di sintesi del lavoro, sul foraggio “i risultati non evidenziano significative differenze, ma il risparmio idrico è circa dieci volte superiore”. Ha riguardato le zucchine, invece, un recente progetto portato avanti nel Ragusano da Sata, società che offre servizi a tutti i soggetti della filiera agroalimentare vegetale e a cui hanno collaborato Università di Catania e Prosea Ragusa. Quasi tutte le zucchine coltivate con meno acqua e una concimazione più sostenibile, non hanno avuto riduzioni di peso, né ci sono stati rilevanti modifiche per quanto riguarda sali minerali e nutrienti. “Va ricordato – spiega Cantini – che siamo un Paese di piccole e medie aziende che vanno dai 2 ai 25 ettari e che non possono attuare una grandissima innovazione verso elettronica, sensoristica, macchine”. Sono le grandi aziende ad avere gli strumenti per superare la crisi, perché possono permettersi agronomi, agricoltura 4.0 e macchine di precisione.