Cinema

Quando l’Oscar lo vince il film “sbagliato”. Da La La Land a Salvate il soldato Ryan e Inception: gli errori dell’Academy

Con l’Oscar 2023 al Miglior Film per Everything everywhere all at once, infatti, si ripresenta l’attimo dell’imbarazzo provato per altri che si stanno rendendo ridicoli

E se l’Oscar lo vincesse il film “sbagliato”? Nei giorni scorsi sul sito hallofseries avevano, come dire, azzeccato pronostico e delineato il ripetersi di una situazione storica. Con l’Oscar 2023 al Miglior Film per Everything everywhere all at once, infatti, si ripresenta l’attimo dell’imbarazzo provato per altri che si stanno rendendo ridicoli (in tedesco si dice fremdschamen). Insomma al netto di una superiorità drammaturgica, tecnica, stilistica di almeno cinque titoli in nomination sul film dei The Daniels (The Fabelmans, Gli spiriti dell’isola, Tar, Elvis, Niente di nuovo sul fronte occidentale) proviamo a fare una carrellata su quando in passato ha vinto chi meritava nemmeno di stare in cinquina.

Moonlight su La La Land (2017). Vi ricordate l’anno della busta sbagliata? Lapsus freudiano dissero in molti all’epoca. Infatti con l’andare non tanto dei mesi e degli anni, ma semplicemente di qualche settimana, il cosiddetto “globo terracqueo” dimenticò con tutta la sua laccata illuminazione il film Moonlight. Lo scippo, con tanto di proclamazione sbagliata, fu ai danni di La La Land diretto dall’astro nascente Damien Chazelle, comunque film dell’anno. Ma va anche detto che il regista Barry Jenkins, piuttosto incredulo di fronte ad una vittoria così prestigiosa arrivata con altrettanta fulminante sorpresa, incanalò subito un altro buon film, ma di super nicchia black (If Beale street could talk nel 2018) e successivamente chiuse bottega creativa per dedicarsi alla produzione e alle solite ciance anti Trump. Produceva allora la A24, la stessa di EEAO.

Spotlight su Mad max: fury road e The revenant (2015). Per carità mica siamo qui a sminuire il cinema di impegno civile e la denuncia contro la pedofilia dei preti cattolici. Solo che a mente fredda, e anche qui già dopo qualche mese, il film di Tom McCarthy, in un club di amanti del cinema quello bello industriale ma con classe non ci doveva nemmeno finire. Il fantasmagorico, folle ritorno di George Miller con il suo franchise di Mad Max e l’epopea di sopravvivenza solitaria firmata Inarritu erano talmente superiori in ascissa e ordinata rispetto a Spotlight da provare un notevole fredmschamen. Anche il povero McCarthy invece di far diventare l’Oscar come un trampolino si è disperso nelle nebbie della Disney.

Il discorso del re su Inception e The social network (2010). Col senno di poi son piene le fosse, ma permetteteci: che fosse! Che Tom Hooper e il suo balbettante Re Giorgio sia riuscito a scippare la statuetta sia agli extractors di Christopher Nolan che all’epocale, ossessivo e robotico Mark Zuckerberg di David Fincher rimane uno di quei piccoli misteri gialli che nemmeno la compianta signora Fletcher potrà risolvere. Quasi che la potenza, il fragore, l’impatto della grande opera venisse visto come troppo invasivo rispetto ad un testocentrismo esasperante. Anche qui molto contò la cosiddetta “aggressività” di Harvey Weinstein nell’imporre il proprio prodotto, ma soprattutto l’Oscar divenne per il povero Hooper una sorta di strana maledizione che si è arenata nel 2019 quando sul set di Cats per poco mezza troupe non chiama i sindacati per le eccessive esigenze lavorative del nostro.

Shakespeare in Love su Salvate il soldato Ryan e La sottile linea rossa (1998). Rimaniamo dalle parti della Miramax di Weinstein perché su ogni libro di storia degli Oscar è scritto col sangue questo furto a caratteri cubitali. L’orco del #MeToo organizzò una campagna di una aggressività senza precedenti verso i membri dell’Academy per fare in modo che il film diretto da John Madden ricevesse addirittura 7 Oscar su 13 nomination (vi ricorda una qualche proporzione più attuale?). Si piegarono parecchio e in tanti, anche perché all’epoca Miramax significava cultura e qualità. A farne le spese il manipolo di soldati di Spielberg e l’altro manipolo militare, più filosofeggiante, di Malick.

Crash su Brokeback Mountain (2005). Qui oltre all’audacia compositiva, poetica, dolente e risoluta del film di Ang Lee, c’è proprio la debolezza intrinseca di un film sgangherato, spento, dimenticato prestissimo come quello diretto da Paul Haggis. Un furto da domiciliari immediati, anche perché Brokeback Mountain è diventato subito film tra feticismo e cult, iconico e malinconico, che lascia un segno più di qualsiasi costruzione woke a tavolino, elevando a potenza il sentimento totalizzante tra i cowboy Jake Gyllenhaal e dell’indimenticabile Heath Ledger.

Gandhi su ET, Missing, Tootsie, Il verdetto (1982). Andando a scavare bene nel passato degli Oscar emergono scheletri di fremdschamen da urlo. Il caso paradigmatico è quello del 1982. Di fronte all’extraterrestre campione d’incassi, nonché incredibilmente coinvolgente e anticonformista di Steven Spielberg viene preferito il polpettone anticolonialista di sir Richard Attenborough. E come se non bastasse in cinquina veleggiano alcuni capolavori assoluti del cinema: la commedia di Sydney Pollack con Dustin Hoffman en travesti; l’apice spettacolare del cinema di denuncia di Costa-Gavras; e un crepuscolare Paul Newman avvocato turlupinato ma onesto nella perla morale di Sidney Lumet.