Politica

Autonomia differenziata, il tentativo di risolvere i problemi puntando sull’egoismo regionale

La politica italiana genera delle incomprensibili geometrie verbali. Qualche decennio fa era in voga l’espressione “convergenze parallele” per indicare una situazione contemporaneamente di vicinanza e di lontananza tra partiti. Ora, abbiamo di fronte un’espressione egualmente creativa, quella dell’autonomia differenziata. Abbinamento molto curioso del lessico politico contemporaneo, anche perché un’autonomia indifferenziata sarebbe un non senso.

L’autonomia differenziata a trazione leghista è al suo secondo tentativo. Una prima iniziativa è rimasta bloccata qualche anno fa a livello di pre-intesa tra alcune Regioni e lo Stato. Anzi, sortì una nutrita commissione di esperti che però pare non abbia prodotto nulla di significativo. Invece il ministro Roberto Calderoli in pochi mesi ha prodotto un testo di dieci articoli, effettivamente arduo da comprendere per i continui rimandi normativi. Per fortuna c’è la relazione illustrativa che ne svela l’arcano.

L’intenzione è ottima. Questa legge, come si legge nella relazione, non vuole dividere il Paese (!) ma dare piuttosto la concreta possibilità a tutte le Regioni di esprimere le loro potenzialità e crescere ad una velocità più elevata.

Il percorso verso l’autonomia differenziata è abbastanza complicato, quasi barocco, e prevede una serie di pareri e intese tra governo, ministri e Regioni interessate in una specie di gioco dell’oca con le opportune caselle. Solo alla fine è prevista l’approvazione finale delle Camere, che a questo punto sarà solo una mera presa d’atto. Quindi il Parlamento rimane sostanzialmente uno spettatore passivo del gioco tra governo e Regioni. Il grimaldello usato dalla Lega ha una sigla, Lep (Livelli essenziali delle prestazioni). Prima di arrivare all’autonomia sarà necessario che vengano fissati i Lep per i servizi attribuiti alle Regioni al fine di non creare disparità nei servizi offerti dallo Stato su tutto il territorio nazionale.

L’approvazione in così poco tempo di un testo abbastanza complesso garantirà alle regioni del Nord, che ne sono promotrici, le risorse necessarie per adeguare i loro servizi regionali? Oppure riusciranno finalmente a mettere le mani sul loro tesoretto tributario, il famoso residuo fiscale (altrimenti non si spiegherebbe perché l’autonomia differenziata sia il cavallo di battaglia delle regioni più ricche)? Quasi sicuramente no. In primo luogo, la legge non prevede risorse aggiuntive. L’art. 8 ripropone la consueta clausola di invarianza finanziaria per i conti pubblici e quindi la riforma si fa senza oneri aggiuntivi per lo Stato. A questo punto allora, al più, si tratta di un gioco a somma zero tra le Regioni. Se, per esempio, alcune Regioni seguissero l’esempio della Provincia di Bolzano che riconosce un’indennità aggiuntiva di 7.148 euro annuali ai docenti provinciali, questi soldi dovrebbero essere sottratti a tutte le altre. L’autonomia differenziata senza un’autentica autonomia fiscale rimane un’espressione del tutto vuota, semplicemente non può esistere.

In secondo luogo la ripartizione effettiva degli oneri e delle risorse tra Regioni dipenderà da come verranno definiti i famosi Lep. E siccome il loro finanziamento, molto correttamente, non fa alcun riferimento alla capacità fiscale della singola Regione ma alla popolazione residente, è probabile che non ci possano essere grandi variazioni rispetto allo stato attuale. Le Regioni ricche rimarranno a credito nei confronti dello Stato e quelle meno sviluppate a debito. Insomma, si potrebbe verificare una situazione per cui si fa, da parte leghista, tanto rumore per nulla con il risultato finale di continue e sfibranti discussioni su come calcolare il costo di questi servizi essenziali, con il ricco Nord che tira da un lato e il Sud squattrinato dall’altro, senza soluzione di continuità.

Di sicuro invece, e al contrario di quello che esplicitamente prevede la normativa, ci sarà un aumento della burocrazia, almeno per le Regioni che vorranno contrattare con lo Stato centrale la loro differente autonomia. È abbastanza ipocrita affermare che con la nuova legge si vuole alleggerire il peso dell’Amministrazione pubblica per i cittadini quando si aggiungono altri ingranaggi alla macchina burocratica. Non solo le Regioni aumenteranno la loro sfera amministrativa, ma anche le Province e i Comuni, che potranno anche loro vantare qualche diritto all’autonomia differenziata. Tutte queste dinamiche amministrative aumenteranno inefficienze e conflitti a tutti i livelli, con grandi disagi per i cittadini. Non si semplifica la vita alle persone aumentando i livelli decisionali.

Il ministro Calderoli è passato alla storia come il promotore di una nefasta riforma elettorale che lui stesso a posteriori ha definito una porcata, ed è stata battezzata “porcellum” dal grande politologo Giovanni Sartori. Ora è tornato di nuovo alla carica con un’altra prodezza legislativa dello stesso calibro e che verrà giudicata, magari dallo stesso promotore, assai severamente. Per accelerare questo processo di valutazione, potremmo suggerire di chiamare, date le sue caratteristiche, la legge sulla autonomia differenziata “boiatellum” in onore del grande comico Paolo Villaggio.

L’autonomia differenziata, cioè il tentativo di risolvere i problemi italiani puntando sull’egoismo regionale non è una buona strada, ma solo un siparietto creato da un partito politicamente quasi moribondo. Questo non significa che in Italia non esista un problema di (in)efficienza regionale, questa sì molto differenziata ma alimentata ad arte dalla classe politica. Che tocchi ad un premier ipernazionalista operare per la disgregazione economica e istituzionale del Paese è una delle tante e tristi anomalie della politica italiana, un prezzo elevato che Meloni paga per rimanere incollata alla sua poltrona di premier, al di là dei valori di unità nazionali sbandierati ad ogni piè sospinto ma calpestati nella pratica.