Politica

Perché non si deve rinunciare alla Giornata della Memoria, anche se scomoda e faticosa

Verrebbe voglia di rinunciare a questa Giornata della Memoria… tanto, come dice Liliana Segre, gli ebrei hanno stufato e fra qualche anno la Shoah sarà ridotta a poche righe sui libri di storia. Poi ci si mette pure Israele a ricordarci, con il blitz militare nel campo profughi di Jenin che ha provocato dieci vittime, l’esistenza di altri popoli oppressi: i palestinesi laggiù se la passano sempre peggio. Metteteci in più la guerra che vede i russi, cioè i liberatori di Auschwitz quel 27 gennaio 1945, intenti oggi a bombardare il popolo ucraino, nel quale allignava, sì, un forte antisemitismo, ma che non si merita certo per questo di essere invaso. E in Italia a celebrarla, questa Giornata della Memoria, arriva un nuovo presidente del Senato che condanna con veemenza le leggi razziali tenendosi in casa il busto di Mussolini, tanto è vero che in aula si è scordato di pronunciare la parola fascismo, come se quelle leggi fossero piovute da Marte.

Alla vigilia, il governo Meloni rimuove l’ignara bravissima coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, Milena Santerini, per sostituirla con un prefetto che si era candidato nelle liste di Fratelli d’Italia senza venir eletto. Agli ebrei si offre l’appoggio incondizionato della destra al partito-fratello di Netanyahu, e il ripudio delle leggi razziali, in cambio di una memoria edulcorata in cui svaniscono le responsabilità del fascismo, ora che i suoi eredi sono tornati alla guida del Paese. Tanto è vero che lo stesso La Russa, solo un mese fa, celebrava l’anniversario della nascita del Msi di Giorgio Almirante, come se non si trattasse della stessa persona che quelle leggi razziali le aveva propagandate e spietatamente applicate.

Eppure, non si può, non si deve rinunciare alla Giornata della Memoria. Proprio perché la memoria è sempre faticosa, scomoda, complicata, un ginepraio, proprio per questo ci è preziosa, irrinunciabile.

Anche se è difficile, spesso imbarazzante, dobbiamo chiedercelo perché ottant’anni fa gli italiani credettero, nella loro maggioranza, si bevvero la panzana che fosse pericolosa per le sorti della patria la permanenza fra loro di 40mila ebrei su 40 milioni di abitanti. Non erano tutti gente cattiva, la più parte un ebreo non lo avevano mai visto. Accettarono l’idea che la nazione per rinforzarsi doveva eliminare i parassiti, e che i parassiti erano gli ebrei. Prima, nel 1938, espellendoli dalle scuole e dagli impieghi pubblici. Poi, cinque anni dopo (ma qui per fortuna già in molti si ribellarono), addirittura dando loro la caccia casa per casa, deportandoli senza nemmeno chiedersi che fine avrebbero fatto in quelli che si rivelarono essere non campi di lavoro, ma campi di sterminio.

Dobbiamo continuare a chiedercelo non solo per rispetto delle vittime, ebrei, dissidenti politici, zingari, omosessuali. Non solo per onorare chi scelse di rischiare la vita per abbattere la dittatura e creare le fondamenta di uno Stato democratico. Ma anche perché quel nazionalismo che oggi si chiama suprematismo, sempre pronto a scatenare la caccia al “diverso” quando conviene incolparlo delle cose che non vanno, è una iattura replicante che si avvale della smemoratezza, la promuove, mistifica la realtà dei fatti storici, occulta le responsabilità criminali di chi orchestrò la deportazione insieme ai nazisti.

Facciamola insieme, questa fatica, se vogliamo conservarci un futuro di civiltà.