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Caro Nando, ti scrivo… una lettera sulla vecchiezza

Caro Nando ti scrivo, così mi distraggo un po’ e, siccome sei molto lontano, sfrutto la forza del blog. Un privilegio che questo libero giornale mi concede da otto anni, tanto da consentirmi di spendere privatamente il post numero 400. Certo un bel traguardo, anche se la numerazione è un po’ approssimativa, così come quella dei lavori scientifici. La quiescenza — così chiamano la pensione negli atenei — esime dall’aggiornare l’elenco delle pubblicazioni; e tampoco l’Orcid, che non è una orribile creatura mitologica, ma un sistema di controllo della produzione scientifica. Non saprò mai se, avanti che la venustas mi conquisti definitivamente, il curriculum scientifico supererà quota 500 prima del “rincoglionimento”, la tua libera traduzione del latino venustas. Né m’importa, giacché la saggezza della senectute insegna che ben poco di ciò che produciamo sarà accolto come un dono dai posteri e, soprattutto, non sappiamo affatto prevedere che cosa di quanto abbiamo prodotto, eventualmente, lo sarà.

Il tuo post ha sdoganato un nuovo vocabolo: ageismo, neologismo di origine anglosassone che non so classificare. Qualcosa a metà tra la neo-lingua orwelliana e la semantica truffaldina (doublespeak, in inglese) che ha inaugurato il nuovo millennio con peacekeeper war o “missione di pace” per finire a shabby chic (trasandato chic) anziché vecchio e consunto. Le parole non hanno il potere di impressionare la mente senza lo squisito orrore della loro realtà, come scrisse Edgard Allan Poe (Le avventure di Gordon Pym, 1838).

Entrambi abbiamo dedicato la vita all’acqua. Nell’acqua tu hai cercato la vita e, soprattutto, hai difeso questa vita praticando una scienza alta. Un idraulico deve, invece, affrontare questioni meno nobili scrutando la sfera di cristallo di eventi estremi come alluvioni e colate detritiche o grattando sotto la crosta terrestre alla scoperta degli inquinanti. E persino interrogarsi sull’acqua che non c’è arrovellandosi sul fronte della siccità. Nel timore sempre più opprimente di essere colpito e affondato dalla sindrome di Cassandra.

Per questo, non ho troppa nostalgia dei progetti di ricerca che l’università post-moderna ha ridotto a una macchina infernale, dove la forma burocratica e la religione dei soldi tiranneggiano la sostanza, la fantasia e l’innovazione (vedi: Morte e resurrezione delle Università). L’imperativo “pubblica o muori” riduce la passione scientifica e determina ciò che segnali: ripetitività e irrilevanza. L’oblio dei giovani che scoprono l’acqua calda non è una tara generazionale, ma la diretta conseguenza della scienza del Grande Fratello che azzera la memoria quale presupposto della crescita infinita lungo direzioni consolidate, indiscutibili, irrefutabili. E impone di tagliare i ponti con l’esperienza e la saggezza.

Quando frequentavo la Princeton University per indottrinare gruppi multietnici di aspiranti dottori, nei primi anni Duemila, fui sorpreso dalla vetustà di alcuni colleghi. Negli Usa si va in pensione per scelta, non per obbedire all’anagrafe. In maggioranza, la scelta di rimanere in servizio era dettata dalla necessità. Una questione di sopravvivenza economica e sociale, poiché la crisi dei fondi pensione aveva dimezzato l’assegno di quiescenza, se non inciso ancora più a fondo. Noi siamo figli del welfare, indegni dei padri che lo hanno costruito senza che noi fossimo capaci di conservarlo a figli e nipoti. Anche se siamo entrambi in pace con la coscienza sociale, dall’alto di 50 e più (52) anni di versamenti contributivi, dobbiamo dichiararci fortunati. E, per fortuna, ho declinato 35 anni fa una offerta di full professorship nel Massachusetts Institute of Technology. Tra Cape Cod e Albisola, non ho dubbi quale spiaggia scegliere. E neppure quali montagne tra Steamboat e la valle di Ayas.

Nel mondo scientifico, i grandi vecchi non sono mancati, dalla nostra Rita Levi-Montalcini (1909–2012) all’ecologo David Goodall (1914-2018). E amo ricordare la freschezza, l’entusiasmo e l’impegno del geologo che diresse la spedizione italiana alla conquista del K2, Ardito Desio (1897-2001). Professore emerito della Statale di Milano e pressoché centenario, Desio seguì come correlatore parecchie tesi di ingegneria ambientale sui temi di idrologia nivale e glaciale che mi sono cari. Non mi entusiasmano altri prototipi se non quello scientifico, perché non ho a cuore l’ordo-liberalismo, il greenwashing, il rockstar system. Anzi, con le rockstar ho un sussulto di competitività. Tra tutti i contemporanei apprezzo soprattutto Papa Francesco, un faro non solo sull’acqua, il clima, la guerra. Francesco ha pubblicato un libro intero — La lunga vita, lezioni sulla vecchiaia — per ricordare al mondo l’unità delle età della vita: “il reale punto di riferimento per la comprensione e l’apprezzamento della vita umana nella sua interezza”.

Caro Nando, solitario cowboy genovese, sei ancora e sempre un “ragazzo terribilmente simpatico che lavora tutto il giorno al sole” come canta di te un grande musicista del secolo scorso, Frank Zappa (Lonesome Cowboy Nando, in You Can’t Do That On Stage Anymore, Vol. 6, Rykodisc, 1992). Te lo conferma un vecchio amico assai shabby chic. Un vecchio adolescente che, stravolgendo una poesia di Robert Frost cara al presidente J.F. Kennedy, The Road Not Taken, si pone domande senza risposta: Il Bosco Sbagliato (2022), la settima traccia del nostro album di Natale che ti spedirò.