Diritti

Emanuele Crialese, perché fare coming out ora? Il suo è stato un atto politico e radicale

di Margherita Cavallaro

Trovo universalmente triste quando si parla più della vita privata di qualcuno piuttosto che dei suoi successi artistici, tranne che in due casi particolari: quando il soggetto in genere è una persona orribile e quindi è giusto sia svergognato/a pubblicamente, o quando la vita privata è parte integrante del messaggio artistico e/o politico. Emanuele Crialese con L’Immensità rientra in questa seconda categoria. Piuttosto che fare i soliti discorsi, però, vorrei sottolineare l’importanza che ha avuto questo suo coming out al grande pubblico. Sì perché, se ci pensate bene, Emanuele Crialese è un uomo di successo che avrebbe benissimo potuto continuare a godersi i suoi privilegi di maschio bianco con un certo status sociale, invece di dichiarare pubblicamente di appartenere a una delle categoria che subiscono più angherie nella nostra società.

Però questa linea di pensiero (che so di aver istigato io stessa a mo’ di trappola) presuppone per avere senso che l’essere trans sia una cosa negativa o comunque peggiore del non esserlo. La domanda “ma perché l’ha detto?” viene posta solo quando a essere stata detta è una cosa negativa che sarebbe stato meglio tenere nascosta. In un certo senso questa è una profezia che avvera se stessa nel caso delle persone Lgbt+ in genere: ci aspettiamo che la società veda chi siamo in maniera negativa e per cui, spesso, lo nascondiamo, continuando a comportarci come se sbagliati lo fossimo davvero e, di conseguenza, perpetrando involontariamente il circolo.

La decisione di fare coming out, in questo senso, può essere un atto politico e radicale perché attua una narrativa diversa, ossia che l’essere trans, o gay, o bisessuale, o non-binario, o asessuale, etc. non sia affatto uno stato ontologico peggiore. In fondo è anche il senso del Pride: non ci vergogniamo di quello che siamo, anzi ci amiamo per come siamo e ne andiamo fieri.

Questo è ovviamente prima di tutto un fatto personale, un passaggio importantissimo per guarire le ferite emotive e psicologiche che la società ci ha inflitto fin da piccoli facendoci sempre sentire sbagliati. Però non si tratta solo di questo. Raccontare la propria storia e avere il coraggio di farsi vedere nei propri successi tanto quanto nelle proprie lotte e (perché no) fallimenti, fa sì che ci vedano anche persone che si possono rivedere in noi. Magari persone più giovani che ancora combattono per accettarsi oltre che per essere accettate e per amarsi oltre che essere amate.

Voglio chiarire che non conosco Emanuele, né ho (ancora) visto L’Immensità che, per altro, non è un film sul coming out o sulla transizione come lui stesso avverte. Ci tengo a precisarlo perché, come già detto sopra, queste sono cose prima di tutto personali e non voglio che nessuno pensi mi stia facendo sua portavoce in alcun modo.

Non so perché adesso si sia finalmente sentito pronto a fare questo film. Non so come ha fatto psicologicamente ed emotivamente ad affrontare un argomento così autobiografico e intimo. Non so cosa gli sia costato sacrificare parte del suo corpo alla burocrazia solamente per cambiare una a con una e nel suo nome. Non so se gli manchi quella parte di sé, o se non si sia mai guardato indietro. Quello che voglio fare con questo blog, piuttosto, è sottolineare quanto questo coming out non sia importante solo per Emanuele come individuo, ma anche per tutti i ragazzi (e ragazze) Lgbt+ in Italia che vedranno che persone come loro possono avere successo essendo se stessi e che mostrarsi così come si è può essere una bellissima (anche se difficile) cosa.

È l’importanza della rappresentazione, perché quanto più una parte della società ci dice che siamo sbagliati, tanto più abbiamo bisogno di persone come Emanuele che ci ricordano che in noi c’è tutta la bellezza degli esseri umani. Che non dobbiamo essere imprigionati nella sessualizzazione che la società ci impone cercando di far passare in secondo piano il nostro semplice essere umani. Giustamente Emanuele dice nella sua intervista: “C’è bisogno che dica io ‘sono maschio o femmina’? Sono quello che lei ha davanti, non basta?”.

Parte della società direbbe che no, non basta. La società spaventata e insicura, ossessionata con quello che c’è nelle nostre mutande e nei nostri letti. E invece basta eccome! Noi siamo tutti qui, così come siamo, in questo momento, nonostante (o grazie a) quello che eravamo prima e non siamo più. Tutti siamo qualcosa che prima non eravamo ed eravamo qualcosa che ora non siamo più, ma al tempo stesso siamo sempre tutti meravigliosi esseri umani e questo è molto più che abbastanza: è in sé un miracolo. Ed è bello che persone come Emanuele lo ricordino a tutti.