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Usa, il debito degli universitari è pari al Pil italiano: l’istruzione è un business. E qui?

A volte la realtà economica ci dà dei preziosi insegnamenti, posto che li vogliamo ascoltare. Questo accade anche nel campo delle scienze sociali e in particolare in quello economico. La lezione forte e chiara questa volta ci viene dal caso del debito degli studenti universitari americani.

Le coordinate della vicenda sono abbastanza note, ma conviene riassumerle. Le tasse universitarie negli Stati Uniti sono decise in piena autonomia dalle singole università. A volte arrivano a cifre francamente incomprensibili per noi europei, superando tranquillamente la cifra di 60.000 dollari annuali per i migliori atenei. Negli ultimi decenni, poi, le tasse universitarie americane hanno mostrato un andamento molto superiore all’inflazione. Per poter sostenere questi costi, gli studenti americani non possono che affidarsi alla finanza, cioè si indebitano a tassi anche abbastanza elevati. Debito da ripagare nel corso dell’attività lavorativa.

Ha funzionato questo sistema di finanziamento dell’istruzione universitaria ispirato al liberismo economico? Decisamente no. Attualmente circa 40 milioni di laureati sopportano il peso del debito studentesco. E non si tratta di neolaureati, come si potrebbe pensare: c’è anche chi sta ripagando il debito da venti o trent’anni. Questo debito attualmente è pari al Pil italiano, 1.600 miliardi di dollari, e vale il 10% dell’economia americana. La questione non poteva non avere un risvolto politico e due anni fa il presidente Joe Biden aveva fatto della riduzione del debito studentesco fino a 50.000 dollari uno dei punti salienti della sua campagna elettorale.

Tra molte incertezze, finalmente la settimana scorsa è intervenuto per annullare 10.000 dollari di debito per ogni studente. Prima ne aveva congelato gli interessi. Rimane il fatto che con la laurea il tipico studente americano si porta a casa un fardello medio di 20.000 dollari che crescono velocemente, dati i tassi di mercato, e diventa insostenibile se non si trova una buona occupazione. Quale conclusione possiamo trarre da questa vicenda? L’aspetto fondamentale è che l’università americana si è trasformata in un settore finanziario dell’economia come molti altri. Più che occuparsi della formazione degli studenti e delle studentesse, è diventato un lucroso settore di business per il capitalismo finanziario, a spese delle famiglie americane per le quali la spesa dell’istruzione universitaria sta diventando un incubo.

Potrebbe verificarsi una situazione simile in Italia? No, perché una saggia legge impone che le tasse studentesche non possano superare il 20% del bilancio della singola università. Quindi il disastro americano è evitato. Ma non l’altro, quello cioè del sistematico sotto investimento dell’istruzione universitaria. Per dare più risorse alle singole università, naturalmente quelle migliori, ecco allora che qualche anno fa alcuni economisti iperliberisti, peraltro big molto ascoltati, proposero con grande entusiasmo di importare anche in Italia il sistema statunitense. Via i vincoli di legge, liberalizzazione delle tasse e il mercato dell’istruzione avrebbe portato ad una maggiore efficienza ed equità (sì, proprio così!) del sistema. Per fortuna nessuno li ha ascoltati, altrimenti avremo anche noi uno scenario americano in cui le famiglie si indebitano per anni.

Smentiti dalla storia dunque? Sì, ma non credo che cambieranno idea come Don Ferrante che aveva provato per via logica che la peste non poteva esistere, e sicuramente torneranno alla carica. Comunque l’esperienza ha dimostrato che la ricetta liberista applicata all’istruzione, sia universitaria che non, è un totale fallimento. Invece che liberalizzare, cioè alzare, le tasse universitarie e chiedere alle famiglie di indebitarsi, si può fare qualcosa di diverso? Certamente sì. È la strada che stanno precorrendo numerosi Paesi europei come la Germania oppure l’Austria in cui le tasse universitarie sono inesistenti. Non sarebbe stato male, per esempio, usare una piccola parte dei fondi del Pnrr per eliminare le tasse universitarie anche da noi, almeno per la laurea triennale. Tenendo contro che gli studenti iscritti ai corsi triennali in Italia sono circa 1.093.000 e che la retta media è di circa 1.200 euro (prendo come riferimento la mia università), l’abolizione delle tasse comporterebbe una spesa di 1,3 miliardi di euro. Non proprio un valore insostenibile.

Molto è stato fatto in questi anni per sostenere il diritto allo studio allargando la no-tax area, ma sarebbe stato opportuno fare il passo definitivo, visto che i soldi ci sono. Se guardiamo al Pnrr, le risorse per l’istruzione sono circa 20 miliardi sui 200 per l’Italia. Di questi, quasi 6 miliardi saranno usati per gli asili nido e le mense scolastiche. Altri 8 sono stati indirizzati all’edilizia scolastica, mentre 1,5 sono stati regalati agli Its Academy. Cosa è rimasto per l’università? Qualche briciola per i dottorandi (500 milioni), per gli alloggi (1 miliardo) e per le borse di studio (500 milioni). Se questi ultimi valori sembrano elevati, dobbiamo tener contro che l’arco temporale del piano è di sette anni. Siamo molto lontani dell’Europa anche in questo, e i risultati si vedranno purtroppo solo nel lungo periodo, quando sarà più difficile colmare questo deficit di capitale umano, e nello specifico universitario.

Mi rimane un’ultima curiosità, da storico economico. L’economia standard insegna che il prezzo misura il valore oppure la produttività marginale di un bene. Ora, siccome uno studente americano che frequenta, ad esempio, la Johns Hopkins University di Baltimora paga 60.480 dollari di retta all’anno, mentre uno studente della Ludwig Maximilian University di Monaco sborsa solamente 180 euro di contributi studenteschi al semestre, due università molto prestigiose nello scenario internazionale, possiamo affermare che la laurea americana dia una preparazione 168 volte superiore a quella di uno studente tedesco? Un ragionamento del genere è ovviamente del tutto assurdo, però lo si sente ripetere spesso, anche se in forme meno palesi, dai pappagalli di un liberismo ottocentesco duro a morire, portatore di nefaste conseguenze sia economiche che sociali. Qualcuno dovrebbe finalmente abbandonare la religione del libero mercato.