Società

Quelli di fuori sono cattivi e vanno distrutti. Facciamo come gli Usa: siamo preda di pulsioni tribali

Sono nato a Genova, nel 1951. Genova era uno dei vertici del triangolo industriale e attirava manodopera da tutta Italia. Non solo dal Sud. La famiglia di mia madre arrivò da un paesino della Garfagnana, Cascio. E così mio padre sposò una garfagnina. Suo fratello, lo zio Carletto, sposò una siciliana. Nel quartiere dove abitavo, un quartiere di portuali, avevano costruito lo Smistamento, dove venivano “smistate”, appunto, le famiglie che arrivavano a Genova, in attesa di una collocazione. I miei compagni di scuola erano sardi, siciliani, calabresi, campani, pugliesi. La città vecchia era popolata di prostitute, contrabbandieri che offrivano “pistole” a sprovveduti che compravano mattoni fasciati nella carta di giornale, venditrici di sigarette.

I genovesi purosangue (la mia famiglia per parte di padre) usavano due parole per definire chi “veniva da fuori”: i gabibbi erano quelli che venivano dal sud, mentre i grebbani erano quelli che venivano dal nord. Tipo quelli con la faccia un po’ così cantati da Paolo Conte, che è di Asti. A dir la verità c’era anche un po’ di antipatia per chi non era proprio di Genova, tipo quelli di Sampierdarena. I genovesi “veri” stavano col Genoa, quelli “finti” con la Samp.

Per me, Genova era il centro del mondo e, essendo un porto, un po’ lo era davvero, visto che il mondo la veniva a trovare. Per un po’ fu di moda la raccolta dei pacchetti di sigarette. Andavo avanti e indietro tra via Prè e via del Campo a cercarli. Ce n’erano di stranissimi. I marinai scendevano e si addentravano nei vicoli in cerca di sesso a pagamento, fumando sigarette comprate chissà dove. E buttavano per terra i pacchetti vuoti. Perle rare.

Invece di fare il portuale, come il resto della mia famiglia, ho frequentato l’Università e ho persino intrapreso la carriera universitaria. Da Genova, la vincita di un concorso nazionale a professore associato mi catapultò a Lecce, nel 1987. Mi fece impressione vedere scritte sui muri della città: Bari merda. E quando mi capitò di andare a Bari trovai considerazioni simili su Lecce da parte dei baresi. Per i leccesi, poi, tutti quelli che non sono di Lecce-Lecce sono poppeti. Deriva dal latino, mi spiegarono: post oppidum. Sono quelli che vivono al di là delle mura. Non parliamo di quelli che vivono nei pressi di Santa Maria di Leuca: quelli del Capo.

Ho abitato per tre anni a Porto Cesareo (di cui ora sono fiero di essere cittadino onorario) e lì imparai, dai pescatori, che i peggiori nemici del mare sono i pescatori di Gallipoli. Per i gallipolini, stranamente, è vero il contrario e sono i cesarini ad essere una iattura per il mare. Anche se entrambe le marinerie concordano nell’ascrivere i peggiori disastri alla pesca di origine calabrese. Ma anche quelli di Molfetta non scherzano…

Ho vissuto un anno in California, a Bodega Bay, vicino a San Francisco. Considerata un posto di strambi da chi vive a Los Angeles. Ho anche vissuto per un po’ in Papuasia, e lì le guerre tribali tra villaggi vicini sono all’ordine del giorno. Ora vivo a Napoli e molti napoletani non sopportano il Presidente della Regione, De Luca, perché è… di Salerno. Dicono che favorisca la sua città, a scapito di Napoli.

Non sono ancora riuscito a trovare qualcuno che non pensi di essere nato nel posto migliore del mondo. Anche quelli che scappano, poi tornano a cercare le loro radici. Frank Zappa era fierissimo di essere italiano. Anzi: siciliano. Anche se non capiva una parola di italiano. Insomma, il vecchio detto “tutto il mondo è paese” mi pare funzioni abbastanza bene. Mentre non funziona “moglie e buoi dei paesi tuoi”. L’accoppiamento tra persone che appartengono allo stesso ceppo (il paese) può dare risultati non lusinghieri, mentre la confluenza di patrimoni genetici lontani spesso produce individui di grande “qualità”. Mi piace pensarla così, da frutto di un incrocio tra una toscana e un genovese.

Un mio amico belga, con cui ho passato mesi su un’isoletta della Papuasia, mi racconta che le cose vanno male, laggiù. Stanno circolando i kalashnikov, al posto di archi e frecce, e le scaramucce di un tempo hanno ora esiti ben differenti e tragici.

Penso a cosa succederebbe in Italia se circolassero le armi come circolano in Usa (e in Papuasia). A quanto pare il timore di un conflitto nucleare non è più un deterrente assoluto che impone cautela, e stiamo reinnescando la corsa agli armamenti, con uno spirito tribale che non è mai riuscito ad evolvere in altro. Investiamo e investiremo enormi risorse per costruire strumenti di distruzione del nemico: grebbani, poppeti, gabibbi, baresi e losangelesini, terroni e polentoni, musulmani e cristiani, juventini e napoletani. Quelli di “fuori” sono diversi da noi, sono cattivi, e devono essere distrutti. Siamo ancora preda di pulsioni tribali, e non ci sarebbe niente di male se l’evoluzione tecnologica nella produzione di armi non avesse soverchiato l’evoluzione culturale che, superate le divergenze, ci ha portato a incrociarci con i nostri fratelli neanderthaliani, come han fatto mio padre e suo fratello, mescolandosi con chi veniva da “fuori”.

Stiamo facendo proprio come gli americani. Se esco per strada so che potrei incontrare qualcuno con una 44 in tasca. E quindi è bene che ne abbia una anche io. Pronti a far fuoco. Questa storia non ha morale.