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Catalogna, un tribunale fissa al 25% la soglia minima di castigliano. E c’è chi parla di fascismo

Fu il sociolinguista Philippe Blanchet a coniare il termine glottofobia, la discriminazione su basi linguistiche. Da decenni la Spagna è il terreno più fertile in Europa dove si usa la lingua come un’arma. Un fenomeno che si manifestò durante la dittatura di Francisco Franco quando dal 1940 in poi iniziarono ad emettersi circolari ministeriali che limitavano l’uso del catalano negli uffici pubblici. Presto l’interdizione si estese anche ai marchi commerciali e al mondo cinematografico.

Sia chiaro, il Caudillo non inventò nulla di nuovo, la misura sembrò riprendere l’Editto del 1700 col quale Luigi XVI, monarca di una Francia che aveva esteso i propri domini nella Catalogna del nord, annullava i procedimenti giudiziari, le deliberazioni municipali e gli atti notarili redatti in idioma diverso dalla lingua francese.

In psicoanalisi sanno bene che la vittima può diventare carnefice. È quanto viene avvertito in terra catalana dagli anni 80 in avanti, un vorticoso circolo di accuse e rivendicazioni tra chi sostiene che vada riconosciuta supremazia al castigliano e chi considera lo spagnolo alla stessa stregua di una lingua straniera.

Poche settimane fa la magistratura è intervenuta nella diatriba sociale che è soprattutto strumento di scontro politico, il Tribunale Superiore di Giustizia della Catalogna ha fissato una soglia minima, pari al 25%, utile a garantire l’uso del castigliano.

La crescita dell’indipendentismo negli anni è stata direttamente proporzionale alla discriminazione linguistica praticata in tanti ambiti della vita quotidiana, sanzioni amministrative per le imprese che non adoperano il catalano nelle etichette dei prodotti, l’utilizzo della sola lingua regionale nella segnaletica stradale, il requisito della padronanza dei due idiomi per l’accesso al lavoro negli enti pubblici. Insomma, la Carta europea delle lingue regionali e minoritarie del Consiglio d’Europa, ratificata da Madrid nel 2001, andava stretta ai catalani i quali hanno pian piano imposto il loro idioma come lengua vehicular.

Non sono pochi gli italiani residenti che tutt’oggi incontrano difficoltà a seguire attività scolastiche dei figli improntate principalmente sul catalano. Gli stessi ostacoli vissuti dai tanti spagnoli, principalmente andalusi, che negli anni ottanta sono emigrati in Catalogna, regione fortemente industrializzata, in cerca di opportunità lavorative. In quegli anni furono gli stessi spagnoli emigrati a scendere nelle piazze di Barcellona per pretendere un sistema scolastico poggiato sui pilastri delle due lingue, le discriminazioni patite dai padri, che poco conoscevano la lingua regionale, non dovevano ricadere sulle future generazioni.

Così, con la legge di Normalizzazione linguistica del 1983 voluta dal president della Generalitat, l’autonomista Jordi Pujol, si diede spazio alle due lingue anche nelle scuole pubbliche, una sorta di bilinguismo sociale, in seguito distorto dalle formazioni politiche che hanno provato a introdurre elementi di “segregazione” culturale. In molti istituti, già nella prima metà degli anni 90, l’insegnamento era impartito maggioritariamente in catalano, lingua poi imposta come esclusiva in molti gangli degli apparati burocratici.

La discussione sull’applicazione dei principi fissati dalla sentenza sul 25% è accesa e quantomai aperta, gli indipendentisti propongono di trattare il castigliano come la lingua inglese lasciando autonomia ai direttori scolastici, con la supervisione di un Dipartimento di Educazione, formazioni più centraliste, come Ciudadanos, vorrebbero rilanciare un bilinguismo equilibrato con i due idiomi come lingue “veicolari”. La ministra di Educazione, Pilar Alegría, ricorda che le sentenze vanno osservate, dichiarazione di stile, il governo di sinistra si muove con molta prudenza pensando agli equilibri interni e agli appoggi, sempre utili, dei deputati indipendentisti in momenti cruciali della vita parlamentare.

Una delle poche certezze è l’accusa di “fascismo lingüístico” che, ad ogni nuovo progetto di riforma, rimbalza, con pari forza, da un lato all’altro dei blocchi contrapposti.