Ambiente & Veleni

Troppa plastica nel piatto: dal pesce al miele, dalla birra ai soft drink. Ecco gli alimenti con le maggiori concentrazioni, quali evitare e come ridurre i rischi per la salute

CARRELLI DI PLASTICA - Secondo gli ultimi studi di settore, ogni anno l'uomo mangia 53mila microparticelle. I rischi? "Veicolare in continuazione sostanze chimiche nel nostro corpo". Ilfattoquotidiano.it ha chiesto a scienziati esperti quali sono i cibi più a rischio, i piatti che contengono microplastiche o nanoplastiche e quali pericoli comportino. Ecco le risposte

Se si è davanti a una impepata di cozze, un sauté di vongole, frutti di mare crudi, crostacei o pesci non adeguatamente puliti, in quel piatto è probabile che galleggino anche microplastiche, particelle solide insolubili in acqua di dimensioni inferiori ai 5 millimetri. Se stanno per servire un filetto di orata, invece, è possibile la presenza delle sole nanoplastiche, particelle ancora più piccole. E non è una buona notizia. D’altro canto in pesci, sale, miele, latte e soft drink, dovunque sia stata cercata, la plastica è stata trovata, anche se in dimensioni, concentrazioni e con una frequenza assai diverse da un prodotto all’altro. Dipende da vari fattori come, nel caso degli organismi marini, dalle aree di pesca e dalle correnti. L’essere umano è condannato a mangiare plastica? Capire dove si concentrano i frammenti aiuta a ridurre il rischio di ingerirla quando arriva, invisibile, fino in tavola. Nell’ambito della campagna Carrelli di plastica, condotta insieme a Greenpeace Italia, ilfattoquotidiano.it ha chiesto a scienziati esperti quali sono i cibi più a rischio, i piatti che contengono microplastiche o nanoplastiche e quali pericoli comportino secondo gli ultimi studi di settore. Sono recenti le ricerche, infatti, i cui risultati hanno fatto il giro del mondo e che hanno accertato una certa concentrazione di polimero nel sangue umano e frammenti di plastica nella placenta e nelle feci.

La plastica nel primo alimento, il latte materno – Lo conferma il professore Antonio Ragusa, direttore dell’Unità operativa complessa di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e primo autore dello studio pubblicato a dicembre 2020 su Environment International, condotto insieme al Politecnico delle Marche, che ha provato per la prima volta la presenza di 12 particelle di microplastiche in quattro placente umane su sei analizzate. “La plastica può arrivare in tre modi nella placenta” spiega Ragusa a ilfattoquotidiano.it. Il primo, in ordine quantitativo, è attraverso alimenti e bevande: “Passa attraverso l’intestino, entra nel sangue e si concentra in alcuni organi, tra cui la placenta”. La seconda strada è quella respiratoria e la terza è quella cutanea, “per esempio attraverso trucchi che contengono molte microplastiche”. Non si può certo evitare di respirare, ma è possibile modificare alcune abitudini alimentari e fare attenzione ai prodotti che vengono in contatto con la pelle. Ragusa e il suo team stanno per pubblicare i risultati di una ricerca sulla microplastica nel latte materno. E anticipa: “Abbiamo visto che la quantità di plastica contenuta nel latte delle mamme rispecchia alcuni loro comportamenti e abitudini. Nel loro latte c’è meno plastica se sono più attente, evitando di acquistare e consumare alimenti e bevande (acqua compresa) contenute nella plastica o non utilizzando dentifrici e cosmetici che la contengono”. Ragusa ricorda, inoltra, le diverse app gratuite oggi disponibili che possono leggere il codice a barre e svelare se un determinato prodotto contiene polimeri.

Pesci, molluschi e crostacei: evitare i rischi – Non è sempre facile, però, determinare come la plastica finisca nel piatto, se attraverso ciò che mangiamo o per contaminazione ambientale, per esempio attraverso le fibre sintetiche dei vestiti o le microparticelle della polvere che si depositano sul cibo. Né lo è stabilire se un prodotto, come il pesce, contenga di per sé microplastica magari perché ingerita o sia stato contaminato nel processo produttivo o nelle fasi di trasporto e conservazione. Certi, però, sono i dati di laboratorio sugli alimenti e, su questo fronte, le informazioni più dettagliate arrivano proprio dagli studi su organismi marini. “Il 99% delle indagini a disposizione – spiega a ilfattoquotidiano.it Stefania Gorbi, docente presso il Dipartimento di Scienze della Vita e della Sostenibilità Ambientale dell’Università Politecnica delle Marche – riferiscono di una certa presenza di microplastiche nell’apparato gastrointestinale del pesce, sostanzialmente nelle viscere che, se parliamo di un filetto, eliminiamo quando lo puliamo. Nella parte muscolare che mangiamo, invece, sono presenti le nanoplastiche”. Non è una buona notizia: “Sono potenzialmente molto più pericolose, perché possono più facilmente essere trasferite, attraverso lo stomaco, nel sistema circolatorio e distribuirsi nei tessuti”. Eppure, spiega Stefania Gorbi “indagare la presenza di nanoplastiche nei tessuti biologici è molto più difficile e i dati a disposizione molto più limitati”.

Altro discorso è quello dei molluschi e dei prodotti che consumiamo per intero, senza eliminare la parte del tessuto gastrointestinale: basti pensare a cozze e vongole. Per la stessa ragione, i crostacei vanno consumati non prima di eliminare il tratto digerente, ossia quel filo nero dove i frammenti si accumulano. Una ricerca del 2019 condotta da team delle Università di Cagliari e Politecnica delle Marche, ha mostrato che nei mari intorno alla Sardegna nell’apparato digerente degli scampi la presenza di microplastiche è abbondante: in media più di 5 frammenti per individuo, uno dei numeri più elevati tra quelli misurati nelle specie mediterranee. “È vero che le microplastiche possono essere eliminate attraverso le feci – spiega la docente – e che alcuni crostacei hanno un sistema digerente che sminuzza le particelle in parti sempre più piccole direttamente all’interno del sistema digestivo”, ma resta il fatto che per evitare rischi occorre pulire bene questo tipo di prodotti.

Cosa c’è nei pesci del Mediterraneo – Uno studio condotto nel 2019 anche dall’Ispra ha accertato che almeno 116 specie diverse nel Mediterraneo hanno ingerito plastica. Per il 59% si tratta di pesci ossei come sardine, triglie, orate, merluzzi, acciughe, tonni, scampi, gamberi rossi, per il restante 41% di altri animali marini come mammiferi, meduse, tartarughe, uccelli, ma anche di specie che finiscono sulle tavole di tutto il mondo, come crostacei e molluschi. In un recente report per il quale il Wwf e l’Istituto Alfred Wegener hanno analizzato 2.590 studi sull’inquinamento da plastica negli oceani, si ricorda un’altra ricerca che conferma – sempre nel Mediterraneo – l’ingestione di plastiche da parte di 87 specie di pesci, tra quelle demersali (il 30%) che vivono a contatto con il fondo e pelagiche (16%), che normalmente restano in superficie. In questo caso, le microplastiche sono state ritrovate nel 23% di triglie e merluzzi provenienti da tre differenti aree di pesca FAO del Mediterraneo e anche in più della metà delle sardine (58%) e delle acciughe (60%) provenienti dal Mediterraneo occidentale.

L’assunzione da parte dell’uomo – “In base al consumo di pesce e alle quantità di plastica ritrovate nelle specie – ricorda il Wwf – si stima che l’assunzione annuale di microplastiche da parte dell’essere umano attraverso il consumo di animali marini è di circa 53mila microplastiche (fino a 27mila microplastiche dai molluschi, fino a 17mila dai crostacei e fino a 8mila dai pesci). È stato calcolato che i consumatori europei di molluschi potrebbero essere esposti fino a circa 585 microplastiche all’anno e di circa 253 microplastiche all’anno solo dal consumo di cozze fresche e cotte. “Noi sappiamo per certo che in media il 25-30% dei molluschi che vivono nel mar Mediterraneo contiene almeno una microparticella di plastica al momento in cui viene pescato” spiega la docente. In generale le specie più soggette a entrare in contatto con queste microparticelle sono quelle che vivono su fondali e si nutrono di tutto quello che c’è in profondità e quelle pescate in aree più vicine alla costa o dove l’impatto antropico da plastica è maggiore, ma dipende anche da altri fattori, come le stagioni e le correnti. “Per questo – aggiunge Stefania Gorbi – consiglio di variare continuamente, in modo da non assumere mai quantità eccessive di un prodotto eventualmente contaminato. E di scegliere alimenti che arrivano da diverse aree”.

Dai soft drink al miele – E tutto quello che non viene dal mare? I dati scientifici sono minori e limitati. “Non si può fare una lista dei cibi maggiormente contaminati” spiega l’esperta. Non c’è un dato chiaro su carni o sui legumi, tanto per fare qualche esempio “ma se domani andassi ad analizzare questi prodotti – aggiunge – sono sicura che troverei una qualche particella di microplastica. Che poi sia lì perché è l’alimento che se la porta dietro o ci è finita durante la fase di produzione, questo è difficile da definire. Ma la letteratura scientifica ci fornisce continuamente indicazioni sulla presenza di microplastica o microfibre nel nostro ambiente, in alimenti e bevande, dal miele ai soft drink”. Anche il sale non è esente da questa contaminazione. Ben 36 dei 39 campioni esaminati nel 2017 dall’Università di Incheon (Corea del Sud) in collaborazione con Greenpeace, provenienti da diverse nazioni inclusa l’Italia, contenevano minuscole particelle in polietilene, polipropilene e polietilene tereftalato (PET), i polimeri più utilizzati per gli imballaggi usa e getta. Considerando l’assunzione media giornaliera di circa 10 grammi, un adulto può ingerirne migliaia di pezzi all’anno solo attraverso il sale. Nel 2018, Il Salvagente, mensile leader nei test di laboratorio contro le truffe ai consumatori, ha condotto un’inchiesta analizzando 18 bottiglie di vari marchi, tra cui Seven Up, Pepsi, San Benedetto, Schweppes, Beltè, Coca-Cola, Fanta, Sprite e scoprendo che erano tutte contaminate, con valori che andavano da un minimo di 0,89 mpp/l (microparticelle per litro) ad un massimo di 18,89 mpp/l.

Gli effetti sull’uomo e le sostanze chimiche – L’uomo è esposto a tantissime forme di impatto. “Difficile stabilire quale sia, per le microplastiche, la relazione causa-effetto. In laboratorio, però – spiega Gorbi – abbiamo visto che organismi vertebrati e invertebrati subiscono alterazioni dei sistemi gastrici e digestivi, dell’apparato branchiale, respiratorio, oltre che locomotore nel caso delle microplastiche che possono bloccare pinne e bocca”. Sono stati riscontrati anche effetti indiretti ai sistemi immunitario e antiossidante e, in alcuni casi, danni genotossici o al sistema nervoso. “Possiamo dunque aspettarci un effetto simile sull’uomo, ma è molto difficile da provare. Ma quello delle microplastiche non è l’unico problema” spiega la docente dell’Università Politecnica delle Marche. In laboratorio è stato dimostrato “che queste microparticelle sono capaci di assorbire sulla propria superficie sostanze organiche, inclusi contaminanti, come pesticidi e idrocarburi presenti, per esempio, in ambiente marino a causa dell’impatto dell’uomo”. Oltre al fatto che, per realizzare oggetti di plastica “non si utilizza il semplice polimero vergine, polietilene, polipropilene o polistirene, ma anche sostanze che ne conferiscono determinate proprietà, come elasticità o colore”. Nel momento in cui l’uomo (o un animale di cui si ciba) ingerisce un pezzettino di microplastica, che rischio c’è di essere contaminati da queste sostanze? “Decine di esperimenti eseguiti in laboratorio su vertebrati e invertebrati hanno dato risposte chiare: quando un organismo si nutre con microfibre di plastica contaminate, il contaminante passa dalla microplastica ai tessuti degli organismi”. Ma con analisi su campioni ambientali è difficile riuscire a capire se i pesci che contengono microplastica, per esempio, accumulano nei tessuti concentrazioni maggiori di queste sostanze, come ftalati o i ritardati di fiamma. Ed anche se la microplastica viene eliminata nelle feci “questo circolo continuo non esclude il rischio di veicolare continuamente sostanze chimiche all’interno dell’organismo. Ad oggi servono altre indagini”.

Twitter: @luisianagaita

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