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Guerra Russia-Ucraina, l’assedio di Mariupol negli occhi dei bambini: “Bevevamo l’urina. Hanno sparato alla mamma davanti a me”

Le storie di bambini e ragazzi della città martire raccolte da Vera Khvust, psicologa che dal 24 febbraio lavora come volontaria con i minori evacuati dalle zone più colpite dalla guerra in Ucraina: "Il mio lavoro è fare da filtro e individuare i traumi". È così che si è trovata a parlare con Svitlana, Irina, Diana e tanti altri bambini, e a trascrivere i loro racconti. Ne abbiamo tradotti alcuni

C’è Svitlana che ha 10 anni e da un giorno all’altro ha perso i contatti con sua mamma, medico chirurgo di Mariupol, uccisa dai bombardamenti insieme al suo papà. C’è Irina di 15 anni che ha vissuto per settimane chiusa in uno scantinato, insieme al fratellino di nove anni e alla sorellina di quattro: erano arrivati a bere l’urina per non morire disidratati. C’è Diana che ha 11 anni e ha visto la madre morire davanti ai propri occhi e ha avvisato con un messaggio i volontari: “Ciao, la mamma non c’è più”. C’è Anna che è stata legata a una sedia e costretta a vedere come i soldati russi sparavano a sua madre: “Le hanno colpito prima un piede, poi l’altro, poi le mani e infine la testa”. Sono storie di bambini e ragazzi di Mariupol, raccolte da Vera Khvust, psicologa di Irpin che dal 24 febbraio lavora come volontaria con i minori evacuati dalle zone più colpite dalla guerra in Ucraina. “Sono pedagogista e psicologa, il mio lavoro in questo caso è fare da filtro: quando questi ragazzi vengono evacuati con l’aiuto dell’organizzazione per cui lavoro, una volta al sicuro, fanno una prima chiacchierata con me. Serve per individuare la tipologia dei loro traumi, per indirizzarli poi a specialisti, psicologi e psichiatri, che elaborano il percorso da seguire”. È così che Khvust si è trovata a parlare con Svitlana, Irina, Diana e tanti altri bambini, e a trascrivere i loro racconti, alcuni dei quali poi ha condiviso sul suo canale Telegram. Ne abbiamo tradotti alcuni:

Irina, 15 anni
Quando tutti hanno iniziato a parlare della possibilità di un attacco, non potevamo pensare che sarebbe stato così grave. La mamma diceva che forse avrebbero dovuto installare un allarme in città, ci ridevamo su. Quando ci hanno attaccato, scappare è diventato impossibile da subito. Siamo scesi nello scantinato, la mamma teneva in braccio mia sorella Ljuba (quattro anni e mezzo), io tenevo in braccio mio fratello Igor (nove anni). Tutto tremava. Avevamo paura di muoverci. Con noi nello scantinato c’era anche la vicina, con sua madre molto anziana e suo figlio di sei anni. Un giorno la nonna ha provato ad andare a cercare qualcosa da mangiare per il nipote che continuava a piangere. Abbiamo solo sentito uno sparo. La nonna non è mai tornata. La mamma voleva andare a prendere un po’ di neve da sciogliere per bere, ma sentivamo che i russi erano in strada, e la pregavamo di non andare altrimenti avrebbero ucciso anche lei. Nello scantinato c’erano i topi, di notte ci salivano addosso. A un certo punto abbiamo pensato di catturarli per mangiarli, ma la mamma ce l’ha vietato. Ljuba piangeva molto, ma non doveva perché avrebbero potuto sentirci. Aveva fame e sete.

Un giorno qualcuno ci ha buttato dalla piccola finestra dello scantinato una busta, c’erano delle mele sciroppate e biscotti. La mamma pensava fossero avvelenati, ma abbiamo deciso di mangiarli, a quel punto era uguale se morire di fame o per avvelenamento. Forse ce li avevano lasciati i soldati ucraini, perché anche i vicini avevano trovato una busta simile. Igor diceva che ce li aveva portati San Nicola. A un certo punto la mamma ha iniziato a filtrare l’urina attraverso i vestiti per farcela bere perché i russi erano proprio vicino a noi. Quando abbiamo lasciato lo scantinato c’erano molti cadaveri in strada, i loro resti li mangiavano gatti e cani. È così nauseante. Un altro giorno in più nello scantinato e Ljuba non sarebbe sopravvissuta. Igor voleva uscire perché lo ammazzassero. Era tutto così spaventoso. I capelli della mamma sono diventati tutti bianchi, e lei ha solo 38 anni. Una mia amica, compagna di classe, l’hanno violentata e poi uccisa. Davanti agli occhi di sua madre e della sorellina. Non li perdonerò mai. Farò medicina, mi laureerò e li avvelenerò tutti. Vorrei che i russi non esistessero, che la loro terra fosse deserta, dopo tutto quello che hanno fatto. Per ora ci pensa papà che combatte contro di loro, li sta massacrando.

Svitlana, 10 anni
Svitlana ha lasciato l’Ucraina con la nonna. La madre, un medico chirurgo, era rimasta a Mariupol. La rete dei cellulari ha iniziato a funzionare male già nei primi giorni dell’invasione. Ma, appena riusciva a trovare campo, la mamma di Svitlana si metteva in contatto con lei per rassicurarla che tutto stesse andando bene.

Vera, la mamma sopravviverà?
Spero di sì
Ma non sei sicura?
Sveta, la mamma sta facendo il possibile per riuscire a riabbracciarti, ma sta facendo anche il possibile per salvare vite.
Allora non sopravvivrà?
Farà sicuramente del suo meglio.
Mi stai nascondendo qualcosa.

Un giorno la mamma di Svitlana è rimasta gravemente ferita in un bombardamento.

Vera, non riesco a mettermi in contatto con la mamma. Anche in ospedale non risponde nessuno. Riesco a mettermi in contatto con te, ma con mamma e papà no.
Non so Sveta. Forse non hanno rete? Cosa dice la nonna?
La nonna non mi dice niente, ma io sono grande, devo sapere.

Svitlana non ha più sentito sua mamma e nemmeno il papà. Khvust ha raccontato che la stanno seguendo gli psicologi e che oggi la bambina vive con la nonna in una piccola casa che le hanno messo a disposizione le persone che hanno letto il suo racconto.

Anna, 12 anni
In questo caso il nome è di fantasia perché il papà della bambina ha dato il consenso a Khvust di diffondere il racconto, ma non ha voluto che il loro nome fosse reso pubblico.

Come stai?
Non lo so
Vuoi parlare?
Ha preso e ha sparato nel piede della mamma, poi ha sparato nell’altro.
Cosa hai provato?
Volevo gridare, saltavo sulla sedia e sono caduta, ma loro mi hanno tirata su e mi hanno messa seduta vicino a papà, e mi hanno detto di guardare in silenzio, altrimenti avrebbero sparato anche a papà.
Li hai ascoltati?
Sì, la mamma mi ha pregato. Poi hanno sparato sulle mani della mamma e ridevano. Ci prendevano in giro, dicevano che ce lo meritavamo. Costringevano la mamma a dire che era russa. Poi le hanno sparato in testa. Papà gridava, gridava così forte. Ma io non piangevo. Li odiavo. Ho visto mia mamma salire in paradiso. Ho visto un arcobaleno.

Diana, 11 anni
Di Diana, Khvust condivide solo lo screenshot di un messaggio e la conversazione precedente avuta con la mamma della bambina.

Vera, finché c’è campo le scrivo. Sto molto male. Penso che morirò. La ringrazio per tutto. Grazie che è rimasta sempre in contatto con me, che ha provato a portarci via da qui. Non so perché sta accadendo tutto questo, ma ormai penso che doveva andare così. Respiro a fatica e mi fanno male gli occhi. Pregate per noi. Se sopravvivo, le scrivo. Gloria all’Ucraina.

Dopo qualche ora, la donna ha rassicurato la volontaria di essere viva. Ma in serata è stata la piccola Diana a mandare un messaggio a Khvust dal telefono della mamma:

Signora Vera, sono Diana. La mamma è morta. Cosa devo fare?

“Di Diana non sappiamo più niente. I nostri volontari sono andati a prenderla all’indirizzo dove viveva con la mamma, ma lei non c’era. Abbiamo provato a metterci in contatto con la zia, di cui avevamo il numero, ma non siamo riusciti a rintracciare nemmeno lei”, racconta Vera Khvust. Le chiediamo dove trovi la forza di ascoltare questi racconti. “Cerco sempre di restare calma, lascio sfogare i ragazzi se vogliono. Quando usano parole forti, di odio, contro i russi, li lascio parlare, senza dare giudizi o esprimere opinioni su quanto sta accadendo. Poi, quando sono sola, piango”, spiega. “A casa cerco però di lasciare le storie chiuse nel diario dove le trascrivo – aggiunge la psicologa e volontaria – Cerco di non pensarci, quasi di dimenticarmi delle singole storie, di tutte le sofferenze”.

L’idea di condividere le storie dei bambini è nata proprio dal suo diario: “Io devo trascrivere i loro racconti, fa parte del mio lavoro per fornire le dichiarazioni agli specialisti che seguiranno i ragazzi dopo di me. Dopo aver ascoltato la storia di Irina mi è venuto in mente che forse condividerla sarebbe stato utile per mostrare l’orrore di quanto stava succedendo. Quello che vivevano le persone, i bambini sulla loro pelle”. Khvust parla anche delle condizioni in cui trova questi i bambini quando li accoglie dopo la fuga: “Quasi tutti soffrono del disturbo da stress post-traumatico. I più grandi hanno sintomi di depressione”. E cosa è successo ai bambini che hanno lasciato Mariupol, quale è stato il loro futuro? “Chi è rimasto orfano si trova in famiglie affidatarie in zone più sicure dell’Ucraina. Altri sono stati accolti da altri Paesi, per esempio Anna e il papà sono a Roma”, spiega Khvust che dallo scorso 12 marzo si trova in Italia.

“La nostra casa a Irpin è stata completamente distrutta, non è rimasto nulla. Io, mio marito e i nostri due bambini ci eravamo spostati prima in Transcarpatia, al confine con l’Ungheria e la Slovacchia. Poi abbiamo deciso di lasciare l’Ucraina, ma io continuo comunque a lavorare come volontaria online, con le videochiamate su Zoom, come ho sempre fatto”, racconta. Per quanto riguarda invece le conseguenze di quanto vissuto dai suoi bambini, spiega: “Il piccolo ha 8 mesi, non so quanto si sia reso conto, le conseguenze dello stress che ha vissuto penso che le vedremo con la crescita. La grande invece ha 6 anni, è ancora molto spaventata – conclude – L’altro giorno ha sentito un tuono e pensava che stessero bombardando, si è buttata a terra piangendo. È terrorizzata se sente la sirena dell’ambulanza e continua a dire ‘ho paura che uccidano il mio fratellino’”.