Diritti

#TuttaColpaMia, continua la campagna di Abbatto I Muri per uscire dall’isolamento della violenza di genere

Era iniziata lo scorso settembre e poi dopo una breve interruzione abbiamo ricominciato a ricevere storie, editarle, pubblicarle, sulla pagina facebook di Abbatto I Muri. Fino a un paio di mesi fa avevamo ricevuto circa 800 storie. Ne stiamo ricevendo altrettante ed è segno che la questione non è ancora chiusa.

La campagna è nata per invitare tutte a raccontare esperienze violente per le quali si sentono ancora oggi colpevoli. Sono narrate storie di donne che hanno superato il senso di colpa ma comunque continuano a vivere un disagio profondo con se stesse. Sono le violenze decisamente meno esplicite. Di quelle di cui le cronache non si occupano perché non c’è nessuno straniero che aggredisce per strada una bella ragazza.

Si tratta invece di innumerevoli casi di violenza taciuta, con la complicità di famiglie, vicini di casa, amici e amiche. Una violenza inflitta in situazioni di ricattabilità della vittima, quando lei è una dipendente precaria, quando ha accettato di salire in macchina con quello che pensava fosse un amico, quando giocava con il nonno, quando era a letto con il marito o il fidanzato, quando aveva accettato di andare ad una festa e dopo aver bevuto si ritrova da sola, in una strada buia e senza vestiti.

Sappiamo che le denunce di violenza non rappresentano neppure un terzo delle violenze subite dalle donne. Il sommerso è fatto di violenze che vengono agite in situazioni di ambiguità, in modo subdolo, dove il limite dovrebbe essere sempre il consenso dato o negato, cosa che a quanto pare nell’educazione maschile non sembra contare poi molto.

E vengono raccontate numerose storie di violenza medica, o violenza ostetrica, ciò che succede in una sala parto o in uno studio medico non è facilmente qualificabile come violenza. Perché per prima cosa la violenza va nominata e quando abbiamo imparato a nominarla possiamo riconoscerla.

Troppe storie raccontano di molestie o stupri veri e propri commessi da parenti vicini in tenerissima età. E sono gli episodi più strazianti e difficili da leggere per lo strascico di dolore che lasciano e per le prove di coraggio che le vittime devono compiere per tirarsi su ogni giorno e fare la propria vita.

Quello che possiamo trarre dalle storie narrate è che la maggior parte delle violenze viene commessa da persone conosciute, spesso in famiglia, tra amici, conoscenti. Sono violenze con le quali spesso la vittima è costretta a convivere in silenzio, perché non è facile denunciare, perché le famiglie coprono i pedofili, perché il problema viene sottovalutato perfino dalle amiche e dalle persone conosciute. Quel che resta è appunto la certezza che è stata tutta colpa nostra.

La campagna nasce e procede per ribaltare questa convinzione, per affidare alle donne la responsabilità di nominare la violenza e insegnare ad altre a riconoscerla, per avviare un processo che porta alla costruzione di una coscienza collettiva fatta di consapevolezze e di argomenti più che validi a sostegno del fatto che non è mai colpa nostra. Dove c’è una violenza c’è una vittima e un carnefice. Questo è un dato di fatto.

E se non bastasse quanto ho scritto venite pure sulla pagina a dare un’occhiata alle storie, che possono essere disturbanti, per chi ha un’empatia e una sensibilità non comuni, ma se superate questo scoglio scoprirete centinaia di donne coraggiose che mettono in fila una parola dietro l’altra, obbligandosi a ricordare ciò che vorrebbero dimenticare. Scoprirete centinaia di donne sopravvissute ad una guerra che avviene in casa nostra, quella della quale pochi vogliono interessarsi. E scoprirete anche che ci sono dei metodi per prevenirla. Un’educazione al rispetto dei generi, un’educazione al rispetto del consenso.

La prevenzione non riguarda solo la violenza ma anche quello che a volte accade dopo. Le persone che subiscono questi traumi soffrono di disturbi da stress post traumatico, spesso ricordano il dolore attraverso pratiche di autolesionismo, soffrono di disturbi alimentari o di depressione. Perché il corpo ricorda ogni ferita inflitta e quel corpo pur dovendo trovare un modo per andare avanti non incontra mai risposte e soluzioni nei provvedimenti legislativi o nelle iniziative istituzionali.

A tutte queste donne stiamo dando spazio, gli diamo voce perché escano dall’isolamento e si sentano collegate alle creature ferite di tutto il mondo. Le storie raccolte stanno per diventare un libro sul quale una crew di volontari sta lavorando affinché possano circolare di più, con un ebook scaricabile al costo zero o il minimo che si possa garantire. Perché le voci si moltiplichino e nella speranza che queste storie possano diminuire con il tempo.

Grazie di aver letto fin qui e venite a trovarci o raccontate la vostra storia per partecipare alla campagna #tuttacolpamia scrivendo a abbattoimuri@gmail.com