Scuola

I bimbi ucraini nelle scuole italiane sono oltre 5mila: fondi per mediatori e psicologi. “Per gli altri alunni stranieri, invece, restano carenze”

Per i nuovi arrivati il ministero si è dato subito da fare mettendo a disposizione oltre un milione di euro. Ma lo sforzo non è neanche paragonabile a quello fatto per gli altri minori stranieri che studiano nelle scuole italiane: in genere gli alunni stranieri faticano anche a essere iscritti

“Non esiste solo l’emergenza. In Italia l’accoglienza dei bambini con cittadinanza non italiana non sempre funziona come sta accadendo per i ragazzi ucraini”. A lanciare il campanello d’allarme, prendendo a pretesto lo straordinario movimento che si è creato per aprire le classi ai bambini fuggiti dalle bombe, è Mariagrazia Santagati, responsabile scientifica del settore educazione della fondazione Ismu, iniziative e studi sulla multietnicità. I bambini ucraini nelle scuole italiane al 24 marzo sono oltre 5mila, secondo i dati del ministero dell’Istruzione. In una settimana, siamo passati da 2500 nuovi ingressi in aula al doppio: un quinto sono solo in Lombardia. Per loro il ministero si è dato subito da fare mettendo a disposizione oltre un milione di euro per i mediatori linguistici e gli psicologi.

Uno sforzo che è stato apprezzato da tutta la comunità scolastica, ma che ha inevitabilmente messo in luce le carenze che il sistema d’istruzione ha nei confronti dei minori migranti che ogni anno entrano nelle nostre scuole in Italia. Stiamo parlando di 870.801 bambini e ragazzi (secondo i dati Ismu del 2020) che imparano tra i nostri banchi. Un quarto è di origine africana, mentre coloro che hanno origine asiatica si attestano attorno al 20%. Romania, Albania, Marocco e Cina costituiscono ancora le comunità più numerose nelle scuole, superando ciascuna di gran lunga le 100mila presenze. Gli ultimi arrivati sono, nello scorso mese di settembre, i ragazzi afghani fuggiti anch’essi dal regime dei talebani.

Per loro la realtà è ben diversa da quella che vivono gli ucraini in questo momento: non sempre (anzi quasi mai) ci sono mediatori linguistici e le ore di alfabetizzazione primaria sono sempre poche. “Quello che abbiamo osservato – spiega Santagati – nel corso degli anni è che il diritto all’istruzione talvolta è da negoziare. Ci sono bambini che arrivano e fanno fatica persino a trovare una scuola che permette loro di iscriversi. In queste settimane stiamo assistendo a un po’ di retorica: siamo tutti pronti ad aprire le nostre classi ora ma non lo siamo allo stesso modo per quei minori che attraversano l’Africa e la Libia prima di arrivare sulle nostre coste”.

L’esperta dell’Ismu non dimentica le esperienze virtuose che si creano grazie alle reti tra amministrazioni, scuole e associazioni ma apre una parentesi rispetto all’intervento emergenziale legato all’esodo: “Purtroppo non ci sono misure di sistema uguali per tutti e spesso l’accoglienza dipende dalla volontà e dalle politiche delle scuole”.

I dati che arrivano dall’ultimo rapporto presentato dalla fondazione non sono positivi: la pandemia ha svelato punti deboli dei complessi meccanismi di funzionamento del sistema scolastico già in essere da tempo, correndo il rischio però di amplificare e accrescere ancor di più difficoltà di apprendimento e disuguaglianze di cui soffrono gli studenti più svantaggiati e con bisogni educativi speciali. “La pratica della lingua italiana e le attività di potenziamento sull’italiano L2 – cita la ricerca – si sono ridotte o interrotte, così come sono diminuiti gli spazi di interazione tra italofoni e non italofoni, cruciali per motivare l’apprendimento di una lingua seconda. Molti minori fragili, come i minori stranieri non accompagnati, hanno vissuto una sospensione dei loro percorsi di apprendimento, data la collocazione in strutture di accoglienza senza una rete Internet adeguata o viste le difficoltà delle istituzioni scolastico-formative nel rintracciarli e raggiungerli”.

La realtà, al di là del Covid, è quella di alunni con cittadinanza non italiana che hanno poche ore di alfabetizzazione e si ritrovano in classi dove i docenti non sanno nemmeno l’inglese. Risultato? Restano a fare gli spettatori delle lezioni senza capire (a volte) e senza interagire: “L’Italia da tempo ha scelto la strada dell’immersione in classe con la certezza che i ragazzini stranieri imparano anche stando con i pari ma non basta. Abbiamo bisogno sempre di mediatori linguistici. Dobbiamo essere chiari: non esiste solo l’emergenza”.

Le conseguenze sono riportate nell’ultimo rapporto dell’Ismu: “Partendo dal ritardo scolastico, che è uno degli aspetti più problematici nei percorsi degli alunni non italiani nella scuola, è possibile osservare che attualmente è un fenomeno che riguarda quasi il 9% degli studenti italiani e circa il 30% dei non italiani. Il ritardo rimane ancora molto elevato per i non italiani, soprattutto nelle secondarie di secondo grado in cui il 56,2% degli studenti di origine immigrata è in ritardo di uno o più anni. Anche alle secondarie di primo grado (quasi il 32%) e alla primaria (oltre il 12%), questo gruppo si attesta su livelli elevati, se comparati con quelli degli autoctoni”.