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Il braccio di ferro sull’Ucraina è una crisi paradossale

Il braccio di ferro sull’Ucraina in corso tra la Russia di Vladimir Putin e l’Occidente di cui Joe Biden vuole essere leader è una crisi paradossale, dove il ‘cattivo’ che si prepara ad aggredire ha modi e toni serafici e il ‘buono’ che difende la pace ha modi e toni isterici. Per di più, nessuno capisce quale vantaggio avrebbe la Russia a invadere l’Ucraina – e, infatti, non è detto che lo faccia -, andando incontro a sanzioni durissime; né quale vantaggio abbia l’Occidente ad alzare il livello dell’allarme a toni parossistici, salvo potere poi dire – si spera – di avere sventato il peggio.

Per capire la questione ucraina, bisogna andare un po’ indietro nel tempo ed avere ben presente che le frontiere dell’attuale Ucraina furono stabilite tenendo conto della sua appartenenza all’Unione sovietica: come nella Federazione jugoslava di Tito – e, Negli Anni Novanta, ne misurammo le tragiche conseguenze – così nell’Urss i confini interni erano tracciati avendo cura d’evitare che una singola Repubblica costituisse un blocco unitario etnico, linguistico, religioso e distribuendo ovunque possibile presenze di garanzia russe – o serbe, in Jugoslavia.

Quindi, nell’Ucraina divenuta indipendente dopo il dissolvimento dell’Urss, vi erano e tuttora vi sono territori dove i russi sono maggioritari, se non egemoni: la Crimea fu riannessa alla Russia nel 2014 con un referendum di cui l’Occidente contesta la legittimità; e il Donbass, dove dal 2014 è in atto una sorta di secessione da Kiev.

Nei suoi trent’anni di storia, il pendolo della politica interna ucraina ha subito forti oscillazioni: l’Ucraina ha eletto per due volte presidenti filo-russi e per due volte li ha cacciati con sommosse più o meno spontanee. Ciò non è più possibile ora, perché senza la Crimea non ci può più essere una maggioranza russofona (e russofila). Il che non fa che aumentare l’atavica diffidenza dei russi verso gli ucraini, alimentata anche dalla scelta fatta da molti ucraini, nella Seconda Guerra Mondiale, di arruolarsi nelle unità della Germania nazista e di combattere contro i russi.

Adesso, da una parte la Russia vuole garanzie per i russi d’Ucraina: si potrebbe pensare a forme d’autonomia o alla trasformazione dello Stato ucraino in una Federazione o in una Confederazione – una revisione degli Accordi di Minsk potrebbe soddisfare questa esigenza, a patto di rispettarla. Dall’altra, Mosca non vuole la Nato ai propri confini: pretende una sorta di cuscinetto tra sé e l’Alleanza, attualmente rappresentato in Europa dalla Bielorussia e dall’Ucraina: di qui, l’ipotesi d’una ‘finlandizzazione’ dell’Ucraina di cui hanno parlato nei loro colloqui Putin ed emissari europei.

E qui siamo al paradosso del braccio di ferro tra il Cremlino e la Casa Bianca: Mosca pretende che l’Occidente le assicuri che l’Ucraina non entrerà nella Nato. Washington non vuole e in fondo non può prendere un impegno in tal senso, perché sarebbe come riconoscere ai russi un diritto di veto sulle scelte dell’Occidente e di un Paese terzo. Ma, nel contempo, nessun Paese Nato ha davvero voglia di fare entrare l’Ucraina – un vespaio – nell’Alleanza.

Un’invasione non risolverebbe nessun problema in modo stabile e duraturo: ne creerebbe di nuovi a tutti gli attori di questo confronto, senza contare i drammatici costi umani d’una qualsiasi azione militare, morti, feriti, rifugiati. Una buona ragione in più per pensare che non avvenga, tanto più che – l’ho già scritto in questo spazio – nessuno vuole morire per Kiev né morire di freddo per Kiev. Ma la tensione parossistica di queste ore espone al rischio di errori di valutazione e di provocazioni: è tempo di innescare una de-escalation, per sottrarsi al vortice dell’esasperazione.