Diritti

In Rai pari presenza di uomini e donne nei talk show. Ma le iniquità rimangono

La Rai si è impegnata (finalmente) a garantire una pari presenza di uomini e donne nei talk show del servizio pubblico con la firma del protocollo No Women No Panel, siglato ieri in via Mazzini dalla ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, Marinella Soldi, presidente Rai, dal Cnel, dall’Anci, dal Cnr, Accademia dei Lincei, dalla Conferenza dei Rettori delle Università italiane e dalla rappresentanza in Italia della Commissione Europea. L’era dei “manels”, ovvero dei panel dove intervengono solo uomini, pare essere destinata al tramonto, perlomeno sugli schermi della televisione pubblica.

Ci si dovrebbe rallegrare per la firma di questo protocollo se non fosse per l’amarezza di constatare che la parità tra uomini e donne, dalle opportunità lavorative e di carriera, alla rappresentanza politica fino alla rappresentazione sui media, non è una normale consuetudine. La parità si rivela ancora indigesta agli uomini italiani che quando occupano posti di potere e responsabilità a fatica accelerano un processo di cambiamento in un paese che è al 14esimo posto nella classifica europea delle pari opportunità e sconta tanti ritardi e risente recentemente di spinte reazionarie e conservatrici.

I media hanno da sempre un difficile rapporto con le donne e sono il termometro di disparità che permangono granitiche nel nostro paese. Proprio mentre in Rai si firmava il protocollo, la sottosegretaria al Mef, Maria Cecilia Guerra, presentava il bilancio di genere che segna ancora i conti in rosso per le donne. Seicento pagine di documentazione che illustrano come il gap di genere preesistente sia stato peggiorato dalla pandemia. “Diversamente rispetto alle crisi precedenti – ha spiegato Guerra – l’impatto di quella pandemica è stato particolarmente negativo sulle donne: si è tradotto non solo in una significativa perdita di posti di lavoro in settori dominati dalla presenza femminile, ma anche in condizioni di lavoro peggiori, in una accresciuta fragilità economica e in un conflitto vita-lavoro più aspro del passato”. Per le donne, insomma, piove sul bagnato. Il tasso di occupazione è sceso al 49%, tra le giovani è del 33,5% e al sud è del 32,5%. Il lavoro di cura grava ancora sulle spalle delle madri, costrette a licenziarsi o a scegliere part-time forzati, scontando un welfare che non c’è. Il dato è evidente: il tasso di occupazione tra le madri è del 53,3%, mentre quello delle donne senza figli è del 72,7%.

La condizione delle italiane resta svantaggiata e la rappresentazione delle donne nei media ne è una conferma. Ben vengano quindi i protocolli, anche se val la pena ricordare che le donne non sono una minoranza ma la metà della popolazione mondiale ed è importante denunciare le iniquità, come fece nel maggio del 2021 Rula Jebreal che declinò l’invito di Propaganda Live, il programma condotto da Diego Bianchi su La 7, dopo aver saputo che sarebbe stata l’unica donna in scaletta; erano seguite le scuse del direttore della rete e la promessa di garantire una maggiore partecipazione femminile.

La scrittrice Michela Murgia spesso denuncia il sessismo di questo Paese, scontando le sue analisi con insulti sui social, attacchi sulla stampa, denigrazioni e body shaming. Mirare al corpo di una donna, in qualunque modo lo si faccia, resta la strategia più efficace per depotenziarla. Nel 2018, Murgia condusse un monitoraggio quotidiano sulle prime pagine dei quotidiani Corriere della Sera e Repubblica denunciando l’assenza o scarsa presenza di firme femminili. Un dato confermato dall’Osservatorio di Pavia che, qualche anno fa, rilevò che le firme femminili sui quotidiani sono il 20%, contro quelle maschili all’80%. Difficilmente consultate o invitate negli studi televisivi come figure autorevoli e per le loro competenze, le donne sono interpellate come coralità ed espressione di emotività popolare su fatti di cronaca. E quando accade che siano nominate o intervistate per il loro ruolo per le dure conquiste fatte, si indugia sul loro aspetto fisico, sui loro tailleur, sulle loro scarpe, come accadde (fra le tante) a Kamala Harris, prima vicepresidente degli Stati Uniti.

Spesso le si nomina come fossero persone di famiglia, come accaduto a Maria Capobianci, Francesca Colavita e Concetta Castiletti, le tre ricercatici italiane che nel febbraio del 2020 all’Istituto Spallanzani di Roma isolarono il Coronavirus aprendo la strada alla realizzazione dei vaccini. I titoli sulle “ricercatrici e mamme” si sprecarono, come sul “team in rosa”. Un colore che non valorizza se si riflette sulla reazione del Sap – il sindacato di polizia che ha scritto al Ministero dell’Interno contro la dotazione delle mascherine rosa Ffp2 chiedendo “un immediato intervento volto ad assicurare che i colleghi prestino servizio con mascherine di un colore diverso (bianche, azzurre, blu o nere) e comunque coerenti con l’uniforme della Polizia di Stato evitando dispositivi di altri colori o con eventuali decorazioni da ritenere assolutamente inopportuni, soprattutto se acquistati e forniti dall’Amministrazione”. Il rosa, associato peraltro in tempi recenti alla femminilità, denigra e sminuisce. Quale valore si dà nel 2022 alle donne?

Gli uomini mal digeriscono ancora la condivisione di spazi, luoghi, ruoli che difendono con le unghie e con i denti da una presenza femminile che percepiscono come inopportuna. Siglare protocolli e leggi consola ma non basta, spesso vengono abilmente aggirati: dobbiamo continuare a interrogare gli uomini sul difficile rapporto che hanno con le donne e pretendere risposte.