Società

Con il Covid ormai ci sono ovunque pettorine che ti dicono cosa fare. Ma prima o poi finirà

L’Italia delle pettorine trionfa nel suo furore di controllo securitario. Mai come in questi anni ho visto un proliferare di pettorine, di pseudo divise sui generis e di ogni specie. Le pettorine te le ritrovi ormai ovunque, sul bus, sul tram, all’angolo della strada, davanti al servizio medico, in farmacia, perfino al bar e alla bocciofila. C’è sempre qualcuno in pettorina che ti dice cosa fare, che ti indica, che organizza la tua azione e ha sempre qualcosa di catarifrangente addosso, un simbolo, un fregio che rimanda a un qualche apparato di sicurezza, di cooperativa, di circolo, di associazioni di ex alpini, ex bersaglieri, ex carabinieri o di un servizio vattelapesca. Ma la pettorina, quella c’è sempre.

Il Covid ha sdoganato gli sguardi torvi per presunta autorità in pettorina, l’impazienza, lo sdegno per chi ha la testa dura e non capisce: “che si fa così, che si va di là, che si segue quella linea, che bisogna disinfettare e mettersi in coda e guardi che non bisogna rompere i coglioni, che abbiamo un sacco di lavoro da fare con ‘sto Covid”. Ho assistito a molte forme di scortesia, di villania gratuita, probabilmente frutto di intima frustrazione scaricata a suon di pettorine su persone che non sapevano replicare, impedite del loro sacrosanto diritto di mandare a quel paese certi cafoni perché “Eh!, bisogna capire, c’è il Covid!”.

Qui al nord ne ho visti parecchi di medici e paramedici (con pettorina), funzionari e impiegati scortesi, privi di semplici ed elementari forme di educazione e di cordialità umana. In ambito clinico bisognerebbe darci un freno con questa enfasi degli eroi, dirlo forte invece che, tra tante persone davvero perbene che fanno il loro lavoro di cura, senza tanto strepito e selfie (visto che quel lavoro se lo sono scelto), ci sono anche complessati arroganti che non aspettavano altro che un po’ di potere, di ammirazione sociale, per riscattarsi da chissà quali loro sfighe. Alzano la voce con finta cortesia dietro a vetri, agli interfono (“Cosa si sente!? Come?! Dica più forte! Ha detto alla pancia?!”) esibendo piccole cattiverie da potere spicciolo a scapito di persone disorientate e a disagio.

E poi anziani fatti aspettare al freddo con pretese assurde sull’uso delle tecnologie (“Deve scaricarsi l’applicazione! Deve prima pagare con Io!”), code fuori al freddo alle poste, agli ambulatori, negli uffici pubblici, motivate solo dal Covid e non invece per una spudorata carenza di personale, di disservizi fatti esplodere dalla pandemia. ‘Sto Covid che è diventato ormai il pretesto per giustificare ogni noncuranza e trascuratezza, ogni assurdo atteggiamento di indifferenza e menefreghismo e per coprire malamente troppe ottuse sforbiciate al personale. Dietro ai telefoni che squillano ci sono registrazioni a getto continuo, per fissare una visita “lasci il suo numero la richiameremo entro 48 ore”, sapendo che in realtà passeranno molti giorni. Ma ai centralini gli esseri umani dove sono finiti? Basta mandare la pettorina della sicurezza di turno a dire che “c’è stato un guasto tecnico e che le telefonate sono troppe”.

Già, mai invece dire a chiare lettere che, ad esempio, il servizio sanitario nazionale fa acqua da tutte le parti perché stanno facendo un lento, furbo e inesorabile macello della sanità pubblica, sempre a girarci intorno invece e oggi, da due anni a questa parte, a dare la colpa al Covid, certamente un grosso guaio, e ai maledetti no vax. Mai a dire al telegiornale che, per esempio, in Germania su 100 mila abitanti ci sono 159 addetti al servizio alla persona e da noi 89, tra pubblico e privato.

Tempo fa mi hanno invitato a dire la mia sul tema La società dopo 18 mesi di pandemia. Cambiamenti e resistenze, avrei dovuto parlarne in termini di “cultura”, di arti performative, ma per contestualizzare sono andato e vedermi un po’ di dati, da inesperto. Spero di non aver letto bene: tra il 2007 e il 2017 si sono chiusi più di 200 ospedali, tagliati 45 mila posti letto, ridotti di 10 mila unità il personale medico (tra ospedalieri e convenzionati) e 11 mila unità il comparto infermieristico. Gli ambulatori medici sul territorio nazionale sono stati ridotti del 10% (circa 1000) e il servizio sanitario nazionale ha perso (dato del 2018) il 5,2% delle strutture e il privato ne ha guadagnate il 7,2%.

Spero non sia vero, di essere smentito, ma la tendenza prosegue inesorabile, e mi sa che oggi sono dati che potrebbero essere letti per difetto. “Mi sembra che la comunicazione culturale più urgente sia ora questa”, ho detto agli amici de La società dopo 18 mesi di pandemia. Cambiamenti e resistenze, “questo è ciò che va cambiato e ciò a cui bisogna resistere, con o senza pandemia”. Poi ho parlato di teatro, di spazi culturali, giusto per dire che lì le cose non vanno poi tanto meglio. Ma, insomma, in tempo di Covid c’è ben altro a cui pensare!

Qualche giorno fa ho parlato con uno delle pettorine: “Lavoro per una cooperativa, guadagno una miseria e ho anche un altro lavoro in nero la sera. Mi hanno dato la pettorina con scritto ‘sicurezza’ e sto lì fuori, davanti agli ambulatori. M’hanno detto ‘sia gentile ma energico, deve mandare via chi non ha la prenotazione’. Ma si prenota solo al telefono, è sempre occupato e in tanti si incazzano con me, qualche sberla se la meriterebbero certi”.

Ma finalmente gireremo pagina, la pandemia sparirà e spariranno le pettorine, non vedremo più approssimate divise catarifrangenti e nessuno più ci dirà cosa fare, non fare, entrare e non entrare. E forse proveremo nostalgia per quelle allarmate divise dai colori sgargianti un po’ folkloristiche. Ricorderemo la nostra esperienza disciplinare e distopica perfino con orgoglio. E’ stato solo un incidente, un fraintendimento, perché in fondo eravamo in buone mani, le migliori possibili. Non avevamo compreso nulla di quelle buone mani; eravamo alle prese con il nostro sguardo obnubilato dalla foga di una pars destruens frutto di pregiudizi e rancori ideologici anacronistici, di una malintesa idea dei diritti e della forma. La pars costruens era fortunatamente in quelle buone mani e le ricorderemo per essere state capaci di sottoporci alla bellezza, ai nuovi orizzonti di libertà e cultura. Troppe volte noi, assillati dalla pars destruens, avevamo equivocato quell’amore per assurde costrizioni.

Saremo grati a quelle buone mani per averci ridato la vitalità perduta, la salute per gli anni a venire e la fiducia. Quelle mani hanno pazientemente creato le condizioni adatte per una riconversione dei rudi gesti sociali in parole gentili, comprensive e generose. Saremo grati a quelle buone mani, le migliori, per averci ricondotto alla giustizia sociale, a una umanità finalmente non più obbligata a contrattare la dignità per un salario o per un green pass. Quei fastidi, quei dolori, erano in realtà doglie. Non avevamo capito nulla, avevamo frainteso, era solo un passaggio, siamo stati ingenerosi: le buone mani erano in verità quelle di una illuminata levatrice, scientificamente protese, in piena sicurezza, per una grande rinascita.