Musica

Beatles, la miniserie ‘Get Back’ spezza il cuore

Dell’impatto dirompente e rivoluzionario che i Beatles hanno avuto sulla musica del ventesimo secolo e sulla cultura pop in generale si è già scritto e detto abbastanza per non rischiare di essere ridondanti. Per quanto riguarda l’elaborazione del lutto relativo al loro scioglimento ci si era affidati finora a quasi cinquant’anni di leggende apocrife, interpretazioni di parte e, più in generale, allo sconforto generato dall’idea che un ensemble tanto prolifico, dall’aura semidivina, potesse capitolare a causa di dinamiche fin troppo umane.

A consegnare ai posteri la versione autografa della fine ci ha pensato Peter Jackson (la trilogia de Il Signore degli Anelli) con lo speciale Get Back, per Disney Plus. Prodotta, tra gli altri, dai Beatles superstiti e dalle vedove degli scomparsi, la miniserie riesce pienamente nel compito di spezzare il cuore ai fan per un lutto che molti di loro non hanno mai neanche vissuto, raccontando le travagliate sessioni in studio della band nel gennaio 1969. I quattro di Liverpool si riuniscono in studio per lavorare a nuove canzoni e a uno spettacolo che dovrà prima essere uno speciale televisivo, poi un concerto, e che invece finirà per essere un album praticamente postumo (Let It Be), uscito nel maggio 1970 quando allo scioglimento mancava ormai solo l’ufficialità.

In tre episodi da 120 minuti circa, dolorosi e appaganti per gli appassionati quanto una versione musicale di Marriage Story di Noah Baumbach, i Fab Four si mostrano ben oltre la loro linea d’ombra personale, alla soglia dei trent’anni e lontani da divise di scena e capelli a scodella, molto più presi da sé stessi che dalle scadenze di gruppo che nessuno, a turno, condivide appieno.

Il ritratto che ne viene fuori è quello di una band che tenta di trovare nuova energia tornando alle proprie radici musicali, ma che in realtà dimostra un’urgenza feroce di aprirsi a nuovi stimoli, soprattutto esterni, destinati tuttavia a essere perlopiù negati, almeno finché sono insieme.

A Paul McCartney, spinta conservatrice del quartetto, spetta il ruolo della figura genitoriale, vagamente tirannica, incline a dettare quasi nota per nota gli arrangiamenti che desidera per pezzi scritti prevalentemente da lui. Indispettito dai ritardi degli altri, freddino nei confronti di Yoko Ono, che percepisce come una presenza invadente in studio, ossessionato dal tenere sotto controllo ogni aspetto creativo del lavoro, prova a trainare i compagni con fare carismatico ma, francamente, molto più ingombrante di quanto possa risultare la futura signora Lennon. Ringo Starr, vero collante del gruppo, se ne sta prevalentemente mogio in un angolo, talvolta sonnecchia, intristito dalle tensioni generali, altre volte viene ripreso dalle telecamere mentre manda giù grossi rospi per amore della pace.

George Harrison appare come il più insofferente: sottovalutato come autore dal duo principale, non risparmia frecciate al veleno e addirittura lascia la band per qualche giorno, salvo poi tornare per finire il lavoro grazie alla mediazione di Ringo e John, a cui confessa che sta preparando un album solista (spoiler: All Things Must Pass sarà non solo l’album di un ex-Beatle a vendere di più, ma anche il migliore post-scioglimento a detta della critica).

Lennon si mantiene frizzante di suo: dispensa oscenità irresistibili e regala alla camera vere e proprie vette di istrionismo. Il fatto che non si separi mai da Yoko incide sul suo zelo e sulla sua puntualità, ma non sul suo apporto creativo e soprattutto sul suo smalto: si percepisce il suo entusiasmo nel tornare alle radici rock’n roll dopo tre anni buoni di sperimentazione e sofisticate sovraincisioni. Col senno di poi, la storia sembra avergli dato ragione: la presenza costante del suo nuovo amore regala alla camera momenti di invidiabile intesa e sentimento, ma non sembra in alcun modo spingerlo lontano dai suoi compagni a livello di intesa.

Il turning point preferito di chi scrive è il momento in cui John e George suggeriscono a Paul di ufficializzare il talentuoso e salvifico turnista Billy Preston (già pianista per Little Richard e Ray Charles) come quinto Beatle, e magari di allargare il gruppo in vista di collaborazioni future. Paul risponde che “no, è già difficile andare avanti in quattro”. Di certo senza McCartney e la sua spinta produttiva (dopo la morte del manager Brian Epstein nel 1967 fu lui a farsi carico della leadership de facto del gruppo) avremmo avuto meno album dei Beatles, ma è lecito domandarsi se, con un approccio diverso rispetto al desiderio di stimoli esterni da parte degli altri, non avremmo potuto goderci qualche anno di Beatles in più.

Nonostante Lennon appaia come la figura più elastica e per certi versi spensierata, il documentario ci mostra come sia stato lui a mettere l’ultimo, inconsapevole chiodo sulla bara del gruppo, proponendo Allan Klein come nuovo manager. La gestione finanziaria di Klein, figura controversa, sancirà off camera la definitiva rottura tra McCartney e gli altri tre, nonché anni di cause giudiziarie che impediranno una definitiva riconciliazione in termini perlomeno musicali. D’altra parte, quello che vale per noi comuni umani vale anche per i Fab Four: quando arriva davvero la fine di un amore, ognuno vi prende fatalmente parte a dispetto delle proprie buone intenzioni.

A questo proposito, spezza letteralmente il cuore la scena in cui i quattro leggono divertiti e sprezzanti gli articoli dei giornali scandalistici che profetizzano il loro imminente scioglimento, ad alta voce mentre improvvisano dei tappeti musicali di rock’n roll energico e vitale, come a volerli sminuire.

Le note più felici sono riservate al famoso concerto sul tetto degli Apple Corps in una Londra grigia e abbottonata, prova che davvero, come annunciato dallo stesso Lennon durante i momenti di tensione precedenti, quando la band si metteva a suonare davvero, “tutto cambiava intorno”. La storia dell’ultima esibizione live del più famoso e importante gruppo musicale al mondo è esemplare proprio perché, paradossalmente, è molto affine a quella di ogni relazione umana prossima alla fine: quando l’evoluzione dell’uno lascia a un bivio quella dell’altro, quando si smette di crescere insieme, ogni momento di splendore rimasto, pur vibrando della forza viva del presente, irradia già il tepore malinconico della nostalgia.