Società

Stragi di Sassuolo e Vetralla, inutile cercare il ‘raptus’: qui siamo davanti a un’altra legge

La drammatica sincronia della strage di Sassuolo e di Vetralla ha un atroce comune denominatore: l’arcaica e indistruttibile convinzione del possesso della vita altrui da parte di alcuni uomini.

Ho argomentato in un altro post quale sia la loro natura e torno ancora sull’argomento per ribadirlo poiché mi pare che, nonostante il sangue di questa strage avvenuta a pochi chilometri dal mio studio, nei pubblici dibattiti appaia ancora poco chiaro quali siano le questioni che attengono alla clinica e quelle che invece sono di pertinenza della legge.

La donna come oggetto inalienabile, i figli come scarto sul quale esercitare il proprio desiderio di vendetta verso chi ha osato dubitare di questo non infrequente senso di possesso: sono queste le convinzioni inscalfibili di soggetti né pazzi né alienati, ma saldamente ancorati a questo modo di stare nel mondo che vivono tra noi. Se vogliamo non dico arrestare, ma quantomeno fare chiarezza su questo modo di intendere la vita propria e altrui, ogni sforzo deve esser fatto per strappare alla clinica la singolarità di questi individui.

Dico quello che la clinica insegna ma che nei vari talk show e approfondimenti non mi pare ancora nessuno abbia detto: costoro non sono né redimibili, né “guaribili” e tantomeno approcciabili con intenti psicoterapeutici. La loro struttura di personalità fonde elementi di sadismo e perversione che ignora il senso di colpa, base sulla quale si innesta e prolifera, solo successivamente, un’antica cultura patriarcale a noi ben nota. Il loro universo è plasmato a loro immagine, la regola del possesso è indiscussa base della loro idea di famiglia. Come già scrissi, la donna e i bambini sono considerati un oggetto inalienabile, passibili di morte una volta che osino trovare la forza per liberarsi dalle loro spire possessive. Costoro obbediscono a questi codici, sono i detentori e gli estensori di questa legge. Punto. È, appunto, un’altra legge.

Dunque le regole della convivenza civile non sono da costoro ignorate o sottovalutate, semplicemente non esistono. La legge deve, in questo caso, prendere il posto della clinica, la quale null’altro può fare che dichiarare la propria non competenza, giacché il sadismo e l’esercizio della violenza fisica e psicologica come strumenti di dominio non sono una ‘malattia guaribile’, quanto piuttosto definiscono i contorni di una personalità precisa, chiara e distinguibile.

Nella mente di chi stermina la propria famiglia quando sente di non avere su di essa più alcuna presa, o di chi corre dietro al proprio figlio quasi fosse un coniglio e bloccandolo lo accoltella, non è pensabile, ed è eticamente indegno, andare alla ricerca del cosiddetto ‘raptus’ che possa aver innescato la mattanza. Chi ricorda la diagnosi di tempesta emotiva grazie alla quale un uomo reo di aver strangolato la moglie ottenne un alleviamento della pena? È sotto gli occhi di tutti che in questi anni abbiamo assistito a una sempre maggiore torsione della clinica forense artatamente utilizzata, in molti casi, per ottenere un alleggerimento delle condanne penali inflitte ai picchiatori di donne. Ricordo l’amarezza in sala, diverse estati or sono, quando partecipai alla presentazione del libro di Giovanna Ferrari Per non dargliela vinta, che descrive la vicenda della figlia ammazzata dal compagno ritenuto preda di uno “scompenso emozionale”. È da quel momento che ho iniziato, con interesse clinico, ad appuntarmi la sequela di diagnosi posticce sfornate per attenuare il peso della legge che gravava sulle spalle di tanti uxoricidi: “allentamento della capacità di intendere”, “disturbo dissociativo momentaneo” e, su tutti, l’immancabile “raptus”.

La ricerca del suddetto raptus, dicevo, è fuorviante tanto quanto cercare un vulnus della psiche nella mente di chi, derubato della propria auto, o di un proprio animale domestico, si metta a rincorrere il ladro nella speranza di rientrane in possesso. Nessuno si sognerebbe di coinvolgere la vittima in un progetto di recupero, di modifica del proprio carattere, o andrebbe alla ricerca di un’ammissione della “colpa”. Per tutti è lecito, ammissibile e socialmente riconosciuto come giusto rincorrere chi ci ha derubato di un oggetto di nostra proprietà esclusiva per riaverlo, usando tutti o quasi i mezzi a disposizione.

Ecco, è in questo modo che funziona l’animo di uomini di questo tipo: la moglie è roba mia. I figli sono roba mia, oggetti sui quali posso scaricare la vendetta allorquando ella osi distaccarsi da me. Un’altra legge, una declinazione di proprietà che non ammette deroghe. Se la leggiamo in questo modo, di colpo facciamo piazza pulita di tanto parlare a vanvera di recupero o cambiamento. La clinica offre una dura possibilità di rettifica personale a chi avverte su di sé un taglio, una sofferenza. Su chi opera una sofferente messa in discussione di comportamenti riconosciuti come dannosi per l’altro. Non può nulla contro chi ritiene la proprietà di un altro essere umano un dato non trattabile.