Televisione

Il Collegio 6, il preside Paolo Bosisio a FQMagazine: “Ai ragazzi piaccio anche se mi temono, mi scrivono e mi fermano per strada. Sogno di fare il regista alla Scala”

C’è l’incontro con Visconti - "mi rivolgeva la parola solo attraverso il suo assistente" -, l’amicizia con genio di Strehler, gli incontri con la Tebaldi che prendeva il the delle cinque con sua nonna, e poi ancora quarant’anni di carriera in università, le regie tv e poi quelle liriche in giro per il mondo e la grande popolarità che gli scoppia tra le mani grazie al docu reality di Rai2

Aprire il cassetto dei ricordi con Paolo Bosisio, il mitologico preside de Il Collegio, è un viaggio inaspettato nella storia del teatro italiano e dell’opera. C’è l’incontro con Visconti – «mi rivolgeva la parola solo attraverso il suo assistente» -, l’amicizia con genio di Strehler, gli incontri con la Tebaldi che prendeva il the delle cinque con sua nonna, e poi ancora quarant’anni di carriera in università, le regie tv e poi quelle liriche in giro per il mondo e la grande popolarità che gli scoppia tra le mani grazie al docu reality di Rai2, realizzato in collaborazione con Banijay Italia. «Ero un attore modesto ma grazie alla tv ho riscoperto una passione sopita. E ora vorrei recitare in una bella serie», rivela alla vigilia della seconda puntata de Il Collegio 6, in onda da martedì 2 novembre, che quest’anno è ambientato nel 1977.

Bosisio, lei che faceva quell’anno?
Facevo l’assistente volontario del professor Guido Bezzola, grande letterato che insegnava Letteratura alla Statale di Milano. Non esisteva ancora la cattedra di Storia del teatro, che avrei ricoperto più avanti. Io lo ricordo come un anno scuro, a causa del terrorismo. Erano anni in cui in università venivamo presi d’assalto.

In contemporanea faceva anche il regista televisivo.
Con la tv mangiavo e pagavo le bollette, con l’università guadagnavo 100 mila lire all’anno. Poi vinsi un concorso e nell’’80 entrai di ruolo, diventai ricercatore e lasciai la tv perché mi aveva rotto. Restai in università fino al 2012, quando me ne andai e basta.

Ha sempre fatto più mestieri in contemporanea. Era bulimico dal punto di vista lavorativo?
Sì, mi è sempre piaciuto lavorare molto e coltivare una ricchezza di interessi. Intellettualmente sono curioso, lo sono sempre stato e mi sono sempre messo in discussione. Però tutti i miei lavori sono ruotati attorno alla più grande delle mie passioni: il teatro e la cultura letteraria.

Lei voleva fare l’attore: pensa di essere stato sottovalutato e di non aver avuto il successo che meritava?
Assolutamente no. Da giovane ero convinto che fosse la mia strada ma capii presto di non avere un talento particolare e nemmeno il famoso fuoco sacro. Soprattutto il lavoro di attore teatrale lo trovavo estremamente ripetitivo mentre io sono portato alla scoperta e alle novità. Non a caso sono tornato a fare l’attore in tv, che è tutt’altra cosa, grazie al Collegio, dove non recito testi scritti ed è tutto molto creativo.

Molti pensano invece che sia tutta una messa in scena. E del resto, come dicono alcuni, «il copione in tv c’è anche quando non si vede».
Tutti lo pensavo ma sbagliano. Il programma è tutto nella testa di Luca Busso, il capo progetto, che è geniale, ma di scritto c’è solo uno scheletro generale. I ragazzi immaginano cosa può accadere ma non sono imbeccati e non hanno copioni. Lo stesso vale per me e per i professori. Ovviamente c’è una preparazione generale ma tutto può cambiare all’improvviso per un’inezia.

Mi faccia un esempio.
Penso ai miei momenti istituzionali. Gli autori mi passano una traccia che io imparo a memoria ma poi capita un imprevisto e arriva la sterzata inattesa: basta quello che sbraca su una sedia, quello che ride sguaiato e la situazione prende una piega inimmaginabile perché le reazioni dei ragazzi sono totalmente spontanee.

Anche durante i faccia a faccia nel suo temutissimo ufficio?
Soprattutto in quei momenti. Io di solito sto in un camerino, in attesa, e quando c’è bisogno di un mio intervento un autore mi raggiunge e nel tragitto verso il set mi spiega cos’è accaduto. La truccatrice mi toglie il sudore ed entro in ufficio. A quel punto va come deve andare e ovviamente sono io a direzionare il confronto e a farlo virare nella direzione voluta.

L’impressione è che sempre più spesso alcuni dei ragazzi entrino interpretando un personaggio, magari sperando di sfondare poi sui social.
Questo è normale, perché dopo cinque stagioni conoscono le dinamiche del programma. Ma così come il pubblico capisce quando uno di loro recita il personaggino, lo stesso capita a noi. Ed essendo un po’ più vecchi e sgamati, di solito in qualche giorno glielo smontiamo e loro si ritrovano disarmati e in braghe di tela.

Le novità della sesta edizione?
La ricetta è quella consueta. Niente cellulari, molto mondo analogico. E la solita connessione con all’attualità dell’epoca. Il ’77 fu un anno pesante per via degli agguati delle Br, del terrorismo e dei processi che ne scaturirono. Tutto questo – e molto altro – entra come documentario con spezzoni d’epoca e la narrazione è affidata a Giancarlo Magalli. Tra le cose più interessanti, c’è l’incontro avvenuto tra noi, i ragazzi e i genitori: è stata una giornata di studio molto intensa e con il supporto di uno psicologo abbiamo discusso del rapporto tra giovani scuola e famiglia in quegli anni.

Lei come se l’è spiegato il successo de Il Collegio, diventato uno dei pochi fenomeni tv degli ultimi anni?
I fattori sono diversi. Intanto Il Collegio presenta ai ragazzi e ai genitori un mondo in cui esistono delle regole che consentono di vivere assieme civilmente: per molti dei giovani di oggi è una cosa impensata perché sia a scuola che a casa fanno ciò che vogliono. Inoltre, il racconto corale è un modello paleolitico che trovano interessante: oggi quasi tutti i ragazzi vivono attaccati agli smartphone, non parlano tra di loro e riscoprire le dinamiche del gruppo li spiazza.

Il preside Bosisio è più temuto o detestato?
Detestato no, temuto sì. E nutrono simpatia nei miei confronti anche se incarno l’autorità. Tutto ciò che in casa non accettano, fatto da me piace. E la riprova sono le decine di messaggi che ricevo ogni giorno sui social – ai quali non rispondo mai – o quando mi fermano per strada.

La cosa che le chiedono più spesso?
Prima mi urlano: «Ma lei è il preside». Con questa voce anche da muto mi beccano. Poi mi chiedono cose del programma che non posso rivelare. Ma la cosa più divertente mi è successa cinque o sei volte. L’ultima quest’estate, a Monreale: ero nella cattedrale, mi ferma un ragazzo molto educato e mi dice che vorrebbe parlarmi. «Potrebbe espellermi dal collegio?». Il sogno è che io registri un video in cui gli strillo qualcosa. Vogliono essere puniti da me e io la trovo una roba surreale.

Cosa la colpisce di più, in positivo, dei ragazzi dei Il Collegio?
La voglia di capire, di crescere e di evolvere. Ce ne sono sempre alcuni con fragilità interessanti che pur partendo da livelli sottozero e la media di tre bocciature, improvvisamente spiccano il volo e cambiano.

Ad esempio?
Sara Piccione, una ragazza della quinta stagione. Arrivò agli esami finali profondamente diversa da com’era entrata, tanto che le dissi: «Guarda che il diploma non te lo regalo. Lo prendi per ché te lo meriti». Ho poi saputo che a scuola, nella vita vera, è stata promossa con la media del nove.

E in negativo invece cosa la impressiona?

L’assoluta mancanza di educazione e rispetto. Il fatto che siano ignorantiè un brutto segno ma da quel punto di vista possono migliorare. Molti di loro però non hanno idea dei rapporti sociali, non sanno come si vive insieme agli altri e cos’è il rispetto per un professore o un preside.

Lei che adolescente è stato?
Uno cresciuto in una famiglia con un’educazione molto rigida. Dunque, molto diverso da loro. Ma parliamo di un’altra epoca e di un bambino cresciuto a pane e opera.

Ovvero?
Mia nonna era una melomane incallita e aveva un palco alla Scala. Se so molte opere a memoria è grazie a lei che a sei anni mi portava a teatro e mi spiegava cosa stavamo per vedere. La mia famiglia è sempre stata intrecciata con il mondo operistico.

In che modo?
Giuseppe Giacosa, drammaturgo e librettista – collaborò alla scrittura di Tosca e La Bohème – era cugino primo dei miei nonni, così come il compositore Ildebrando Pizzetti. Senza contare che a casa dell’altra mia nonna viveva Renata Tebaldi.

Che ricordo ha di lei?
Di una donna molto semplice. Andavo a trovare la nonna e me la ritrovavo con lei a bere il the. “Buonasera signorina”, dicevo. Anche se era già in là con gli anni ed era un donnone molto alto, per tutti era sempre la signorina Renata.

Chissà che emozione per un melomane come lei…
A dire il vero io sono sempre stato un callasiano convinto. Maria Callas aveva un vulcano dentro.

L’ha mai conosciuta?
No mai.

In compenso è stato l’assistente di Luchino Visconti in uno spettacolo teatrale. Il primo ricordo che ha di lui?
All’epoca ero l’assistente di un grande regista teatrale, Fantasio Piccoli. Al San Babila di Milano arrivò Visconti per fare una regia e Fantasio mi disse: «Vieni con me che ti presento Visconti, lavorerai con lui». Arriviamo nel camerino e lo troviamo di fronte a uno specchio in smoking, elegantissimo con la sua sciarpa bianca di seta, che ci fissa guardandoci di riflesso. «Luchino, vorrei presentarti Bosisio, sarà il tuo assistente». Lui nemmeno si voltò e continuò a fissarci dallo specchio.

Come riuscì poi ad entrare in sintonia con lui?
Non ci riuscii mai. Ero il suo tirapiedi. Visconti aveva il suo assistente Gianni e davanti a me gli diceva cose del tipo: «Gianni, dì a Bosisio di andare a comprarmi le sigarette». Mi laureai qualche anno dopo con una tesi dal titolo “Cinema e letteratura in Luchino Visconti”, glie la mandai e lui non mi rispose mai. Fu una bella esperienza lavorare con lui ma solo perché, nonostante lo spettacolo assai modesto, c’erano nel cast attori come Mariangela Melato, Interlenghi e la Asti.

Di Giorgio Strehler invece divenne grande amico.
Strehler era generoso e straordinario.
Gli piaceva recitare sé stesso, si doveva amare tutto di lui anche quando era troppo. Ma in un secondo tra di noi scattò la scintilla dell’amicizia. Un amico comune poco tempo fa mi ha detto: «Sono sicuro che Giorgio ti volesse bene». Discutevamo in prova, parlavamo dei suoi progetti, ascoltava anche le critiche benché fossi giovane.

Lei da oltre venticinque anni si occupa di regie d’opera. Che tipo di regista è?
Credo di essere un buon maestro di cantanti. Vado sul palco, sto appicciato al cantante, gli spiego l’interpretazione. Credo che condividere fisicamente sia più utile.

Chi sono i registi d’opera che le piacciono, oggi?
Ma dopo aver visto e lavorato con Visconti, De Bosio o Ronconi, che effetto vuole che mi facciano le mezze calzette di oggi?

Il sogno ancora da realizzare?
Purtroppo, non me lo toglierò mai: fare il regista alla Scala. Ma essendo un regista tardivo, ci sono arrivato a 45 anni, è troppo tardi per arrivare ad alti livelli. E poi io da anni lavoro soprattutto all’estero, perché in Italia è difficile lavorare.

Perché?
Perché l’Italia è molto esterofila, soprattutto nei teatri e nei grandi musei. I sovrintendenti stranieri chiamano gli stranieri e anche tra quelli italiani predomina l’amore per il teatro di regia tedesca, che attualizza tutto. Le mie opere le costruisco leggendo musica, partitura e libretti mica pensando a come stupire attualizzando. Infatti, spesso vado alla Scala ed esco a metà dell’opera.

Per molti anni ha lavorato anche in Corea.
Lì ancora capiscono che il tempo per le prove è fondamentale e che in una settimana non si fa nulla. Ma lì mi sono preso un’incazzatura epica, durante un Rigoletto. Alla prima, il protagonista era una star della lirica coreana che dopo aver latitato alle prove arrivò all’anti generale dicendomi: «Maestro, non si preoccupi, il mio Rigoletto lo conosco bene». «Appunto, il tuo», gli risposi. Poi presi e me ne andai senza presentarmi alla prima.

Anche dalla Statale se ne andò in maniera clamorosa e inaspettata.
Nel 2011 lasciai perché dopo tanti anni di amore tra me e i miei circa 15 mila allievi, l’intesa si era incrinata di colpo. Improvvisamente mi sono trovato di fronte dei ragazzi diversi che faticavo a comprendere. Ad un certo punto la distanza è era tale che non si poteva più colmare. A metà anno me ne andai con una lettera di dimissioni imprevista che fece adirare il Rettore.

Se n’è mai pentito?
No, avendo coltivato altri orti, sapevo di avere altro fuori da lì.

Quale altro orto sta coltivando in questo momento?
Di recente ho recitato in Svegliati amore mio, la fiction diretta da Tognazzi e la Izzo. Dovevo essere il protagonista poi hanno scelto un altro attore e mi hanno affidato un ruolo minore. Però ci ho ripreso gusto e ora vorrei recitare in una serie tv: pur avendo un’esclusiva molto pesante con Il Collegio, spero arrivi una proposta importante. A 72 anni ho ancora voglia di mettermi in gioco.