Cultura

Libero De Rienzo, non solo un attore di culto generazionale ma un ‘trickster’ a tutti gli effetti

Ogni comunità ha i suoi confini, il suo senso del fuori e del dentro, il “trickster” è sempre lì alle porte della città o alle porte della vita, facendo in modo che ci sia sempre scambio. Egli presiede anche ai confini attraverso cui i gruppi articolano la loro vita sociale. Distinguiamo costantemente giusto e sbagliato, sacro e profano, pulito e sporco, maschio e femmina, giovane e vecchio, vivente e morto, e ogni volta l’impostore varcherà la linea e confonderà le distinzioni. Egli incorpora dunque l’ambiguità e l’ambivalenza, la doppiezza e la duplicità, la contraddizione e il paradosso.

Con queste parole Lewis Hyde descrive, nel suo saggio Trickster makes the world, l’archetipo mitologico e folklorico del trickster, appunto, dell’impostore non nel senso di mero imbroglione, ma di guardiano di una soglia tra opposti, di profondo conoscitore dell’ambivalenza umana. Una figura che sta lì a testimoniare le verità di mezzo, cangianti.

Col suo carisma tormentato e sornione, con la sua sigaretta perennemente penzolante dal sorrisetto impunito, Libero De Rienzo è stato uno dei più interessanti trickster del cinema italiano di inizio ventunesimo secolo. Un cinema orfano dello sguardo impegnato di Elio Petri e Francesco Rosi, in cui l’impegno si è rarefatto, facendosi ambiguo, nascosto, liquido. De Rienzo è stato uno dei pochi attori in grado di ereditare quello sguardo e di adattarlo ai tempi che correvano in un’industria completamente cambiata. È stato narratore integerrimo di verità nascoste in Fortapàsc di Marco Risi, interpretando un Giancarlo Siani umanissimo, lontano dalle agiografie, e trickster tra i trickster nella serie Smetto quando voglio di Sydney Sibilia.

Il suo Bart di Santa Maradona (Marco Ponti, 2001), grillo parlante molesto del protagonista Stefano Accorsi, è assurto allo status di ritratto generazionale per il suo galleggiare sospeso tra consapevolezza, rabbia e rassegnazione in un’epoca in cui l’unico individualismo lecito o premiato era quello borghese e produttivo. Il suo Dante Cruciani di A/R Andata+Ritorno, film meno acclamato di Santa Maradona ma più intimista, più fumettoso, più divertente, è un eroe post-realista, un refugium peccatorum per tutte le solitudini post-universitarie irredente.

È il giorno giusto per dirlo, però: che palle, i ritratti generazionali. Al netto di quanto possa essere genuino o fortunato l’incontro tra un momento condiviso e la sua rappresentazione artistica, si corre sempre il rischio di depauperare un’espressione creativa, di renderla esclusiva, di fare appropriazione indebita di uno zeitgeist.

Chiudere l’artista in uno spazio ristretto, fatto di poche interpretazioni, è riduttivo del suo talento poliedrico, espresso brillantemente dietro la macchina da presa in Sangue – La morte non esiste (2005). Nel suo esordio da cineasta, De Rienzo ha firmato infatti una pellicola cruda e onirica insieme, una narrazione frammentata in tre parti e tre stili diversi, che svela la finzione del cinema e l’immanenza dei sentimenti che lo producono. Un rave fatto di toni emotivi, di luci e di suoni che raccontano un’urgenza febbrile di raccontare la condizione umana.

Con Libero De Rienzo il cinema italiano non perde soltanto il volto di un culto per pochi, ma un interprete sensibilissimo, l’incarnazione di un trasformismo sofferto, esposto, sospeso.